Molti anni fa, la Cassazione a sezioni unite scrisse che “il bene della salute (…) è assicurato all’uomo come uno e anzi il primo dei diritti fondamentali anche nei confronti dell’autorità pubblica, cui è negato in tal modo il potere di disporre di esso (…). Nessun organo di collettività, neppure di quella generale e del resto neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita o della salute di un uomo o di un gruppo minore (…)” (sentenza cosiddetta Corasaniti n. 5172 del 6 ottobre 1979). Proviamo ad applicare questo principio fondamentale di civiltà alle vicende dell’Ilva di Taranto.
Se leggiamo gli atti dei processi penali con le loro perizie e le loro testimonianze, una cosa appare chiara: l’Ilva ha provocato e continua a provocare danni incalcolabili alla salute dei lavoratori e degli abitanti circostanti. A Taranto, secondo i periti giudiziari, tra il 2004 e il 2010 vi sarebbero stati mediamente 83 morti all’anno attribuibili ai superamenti di polveri sottili nell’aria, mentre i ricoveri per cause cardio-respiratorie ammonterebbero a 648 all’anno. La media dei decessi sale però fino a 91 se si prendono in considerazione i quartieri Tamburi e Borgo, geograficamente più vicini alla fabbrica. “L’analisi per i quartieri Borgo e Tamburi – scrivono i periti – mostra che, nonostante la ridotta numerosità, una forte associazione tra inquinamento dell’aria ed eventi sanitari è osservabile e documentabile solo per questa popolazione”.
I primi a essere colpiti sono stati gli operai e i dipendenti dell’Ilva. Novantotto le morti da inquinamento in 10 anni. Gli operai che hanno lavorato negli anni 70-90 hanno mostrato, si legge nella relazione dei periti, “un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%) in particolare per tumore dello stomaco (+107%), della pleura (+71%), della prostata (+50%) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e quelle cardiache (+14%)“.
Ma dagli stessi atti giudiziari appare chiara anche un’altra circostanza. Dal 2012 a oggi, dopo che il bubbone era scoppiato, ben poco è cambiato nonostante il susseguirsi di una decina di decreti Salva-Ilva con annessi piani di risanamento ambientale, le cui prescrizioni risultano mai adempiute e sempre rinviate.
Di nuovo, ci sono i wind days, i giorni del vento da maestrale quando le polveri dal parco minerario si sollevano e le nuvole delle ciminiere dalla zona dell’Ilva vengono spinte verso i due quartieri più vicini, dove scatta il coprifuoco: non uscire di casa, chiudere le scuole, non fare attività fisica, aerare i locali soltanto tra le 12 e le 18, quando le immissioni della grande fabbrica sono minori. Il traffico viene deviato per evitare che all’inquinamento industriale si sommi quello delle auto.
Così si spegne la vita, non si spegne l’inquinamento.
E la tragedia continua. Perché oggi a Taranto si sta profilando un inaccettabile braccio di ferro. Da un lato i sindacati dei lavoratori, che, con la Confindustria e il governo, premono per chiudere la trattativa con la cordata di ArcelorMittal e del Gruppo Marcegaglia, ricordando che “se si dovessero spegnere gli impianti sarebbe la fine del sito di Taranto” e di 20mila posti di lavoro. Dall’altro la popolazione, rappresentata da Comune e Regione, che non vuole pagare l’ulteriore prezzo, in salute e qualità della vita, di un risanamento ambientale senza garanzie, spostato (se tutto va bene) al 2024, con la copertura dei parchi minerari al 2020 (il piano è già stato approvato dal 2015).
Insomma, o la vita o il lavoro.
E’ questa la vergogna. Perché in questo modo si fa ricadere tutto il peso di questa tragica scelta su due categorie incolpevoli di soggetti deboli, entrambe vittime di crimini altrui: gli abitanti e i lavoratori (che spesso sono anche essi abitanti delle zone più inquinate), costretti a combattere tra di loro. Comunque vada, saranno loro a pagare per colpe non loro. Come finora è avvenuto.
E mentre le vittime combattono tra di loro, la maggior parte dei veri responsabili, tra prescrizioni, carenze normative, assoluzioni e cavilli vari, sono scomparsi. Nessuno ne parla più.
Proseguendo su questa strada, non ci saranno vincitori e vinti, ma solo vinti. Ecco perché questa vicenda è una vergogna nazionale. Nessuno Stato degno di questo nome dovrebbe permettere che si arrivi a questo punto di mistificazione e di avvilimento. Ed ecco perché mi sembra pertinente il richiamo al lontano insegnamento della Cassazione del 1979. Nessuna pubblica autorità può disporre della vita dei cittadini neppure per un motivo di pubblico interesse.
In nome di questo sacrosanto principio, il popolo inquinato può e deve ritrovare la sua unità e pretendere che finalmente tutti si assumano le proprie responsabilità, politiche e umane, prima ancora che giuridiche: non solo chi per decenni ha lucrato sul mortale inquinamento dell’Ilva ma anche chi per decenni, nelle istituzioni, ha tenuto gli occhi ben chiusi. Con la piena consapevolezza che questa tragedia non è un fatto locale ma una vergogna nazionale che deve impegnare tutti in prima persona, cittadini e istituzioni, locali e nazionali, a garantire che il diritto al lavoro non sia mai alternativo al diritto alla vita.