E’ più significativo quello che manca, nell’incriminazione contro Michael Flynn, rispetto a quello che c’è. E’ stato infatti messo sotto inchiesta per aver mentito all’Fbi sui suoi contatti con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak. Le accuse contro l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump erano però molto più gravi. Flynn era accusato – per i suoi servizi a capo di una società di consulenze, la Flynn Intel group – di aver preso parte a un complotto per rapire Fethullah Gülen, il predicatore turco che vive negli Stati Uniti, nemico numero uno del presidente Erdogan. L’accusa, nell’incriminazione finale, è scomparsa, mentre è presente un reato che comporta una pena molto più blanda: quello, appunto, di aver mentito all’Fbi.
La cosa è subito saltata agli occhi ad avvocati ed esperti che stanno seguendo il caso, e ha significato soprattutto una cosa: e cioè che non soltanto Flynn sta collaborando nell’inchiesta sulle ingerenze russe nelle presidenziali 2016; ma che la sua collaborazione è del massimo interesse, capace di offrire a Robert Mueller e agli altri investigatori notizie preziose sul Russiagate – ed è per questo che si ricompensa Flynn, cancellando l’accusa più grave, quella che l’avrebbe mandato in carcere per un numero consistente di anni.
La mossa di Flynn – ampiamente prevista, tanto che nei giorni scorsi i suoi avvocati avevano comunicato a quelli della Casa Bianca che non ci sarebbe più stato uno scambio di informazioni tra i legali delle difese (un chiaro segno che Flynn era pronto a cooperare con l’inchiesta) – getta una luce estremamente negativa sul futuro politico di Donald Trump. Il cerchio, attorno alla Casa Bianca, si sta infatti lentamente chiudendo. Anzitutto perché ci si trova di fronte, a questo punto, a una nuova fase dell’inchiesta. Sinora, a essere sospettati e accusati di rapporti illeciti con i russi, erano esponenti della campagna elettorale di Trump: Paul Manafort, George Papadopoulos, Rick Gates. Ora nella rete finisce invece un esponente dell’amministrazione Trump, qualcuno che ha avuto attive responsabilità di governo (anche se Flynn si è dovuto dimettere dopo solo 23 giorni dalla carica di consigliere alla sicurezza nazionale, proprio per aver mentito al vice-presidente Mike Pence sui suoi rapporti con l’ambasciatore Kyslyak).
C’è poi un secondo aspetto importante. Finora Trump ha sempre sostenuto che non ci sono stati contatti tra la sua campagna e il governo russo per condizionare i risultati delle presidenziali 2016. La cosa, con il passare dei mesi, ha finito per risultare sempre meno credibile. Magari Trump poteva non essere al corrente dei maneggi con i russi di un suo consulente di secondo piano come Papadopoulos. Ma appare meno credibile che il presidente non sapesse dei rapporti politici ed economici che per anni il suo campaign manager, Paul Manafort, e il suo intimo amico Rick Gates hanno intrattenuto con il partito pro-russo di Viktor Yanukovich; e appare ancora più improbabile che Trump non fosse a conoscenza degli scambi intrattenuti da Flynn, che lo seguiva ovunque durante la campagna elettorale, con l’ambasciatore russo Kyslyak (va ricordato che questi scambi ci furono durante la fase di transizione, quando era ancora in carica l’amministrazione di Barack Obama, e quindi il transition team non poteva, sulla base del Logan Act, fare attività di lobbying con il governo di un Paese straniero).
A questo punto, l’indagine potrebbe svilupparsi in due direzioni. La prima. Mueller ha mostrato, finora, di lavorare secondo un modello preciso: dall’esterno all’interno; da personaggi più periferici della galassia Trump a quelli al centro del potere presidenziale. Questo significa che la prossima mossa dello special counsel potrebbe essere l’incriminazione di uomini ancor più vicini al presidente. Nella sua testimonianza, Flynn dice che il 22 dicembre 2016 un “very senior member” del Presidential Transition Team lo invitò a contattare la Russia per ritardare il voto sulla mozione anti-Israele. Il 29 dicembre 2016 un “senior official” gli chiese di parlare all’ambasciatore Kyslyak sulle sanzioni che l’amministrazione Obama aveva appena imposto alla Russia. Gli alti funzionari del Presidential Transition Team erano, in quel momento, il genero di Trump, Jared Kushner, il figlio Donald Jr., il vice-presidente Pence, il deputato della California Devin Nunes, il segretario al Tesoro Steven Mnuchin e il chief strategist Steve Bannon.
Non sembrano esserci molti dubbi sul fatto che il “very senior member” del Transition Team – che chiese a Flynn di evitare l’approvazione della mozione contro Israele – fosse Jared Kushner. Kushner è l’uomo cui Trump aveva demandato la gestione di alcune questioni internazionali particolarmente delicate, tra cui la crisi israelo-palestinese. Kushner è già stato ascoltato sia dal Congresso che dallo special counsel Mueller. E’ emerso – e questo è già un reato – che il genero di Trump ha omesso di citare, al momento della sua nomina a consulente della Casa Bianca, almeno un centinaio di contatti da lui avuti con entità e interessi stranieri. Kushner ha tra l’altro sempre sostenuto di non essere a conoscenza di legami tra la campagna di Trump e Mosca. Se Flynn dovesse testimoniare il contrario, la sorte di Kushner sarebbe identica a quella di Flynn: incriminazione per aver mentito sotto giuramento. Sul breve periodo, è dunque proprio Kushner il collaboratore di Trump che rischia di più.
C’è poi, a preoccupare seriamente la Casa Bianca, la posizione di Donald Trump Jr. Può, o non può, essere lui il “senior official” che chiese a Flynn di contattare Kyslyak per moderare la reazione russa alle sanzioni di Obama. Anzi, con ogni probabilità non fu lui. Ma non è questa la cosa importante. Donald Jr. è sicuramente l’esponente del circolo di Trump che ha avuto più contatti con i russi. Fu Donald Jr. a mettere in piedi l’incontro alla Trump Tower con l’avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya; fu ancora Donald Jr. a tenere i contatti con Wikileaks, che pubblicava documenti compromettenti contro Hillary Clinton. Donald Jr. ha sempre detto che nulla di illecito avvenne durante quegli scambi. Flynn però potrebbe però offrire a Mueller qualche informazione diversa rispetto a quelle che Donald Jr. ha offerto all’FBI. Anche per il figlio di Trump, a quel punto, si aprirebbe la possibilità dell’incriminazione.
La seconda direzione in cui si può sviluppare l’indagine riguarda però ovviamente lui, Donald Trump. Flynn, nella deposizione in cui ammette di aver mentito, cita Trump e spiega che fu proprio Trump a “dargli ordine di prendere contatti con i russi” (la rivelazione è di ABC News). Se la cosa fosse vera, si scatenerebbe una vera e propria ridda di interrogativi. Trump intendeva riferirsi alla questione delle sanzioni contro la Russia, o chiedeva a Flynn di “prendere contatti” per qualche altra vicenda? Quante volte Trump chiese a Flynn di “prendere contatti”? E come si coniuga questa richiesta con l’affermazione, più volte ripetuta da Trump, di essere all’oscuro di eventuali scambi tra il suo team e i russi? La richiesta di “prendere contatti” tende del resto ad acquistare una sua forte plausibilità, sullo sfondo degli altri “contatti” che membri del team, da Manafort a Papadopoulos a Rick Gates, stabilivano con Mosca.
E’ attraverso questa strada che la strategia di Mueller potrebbe quindi correre: dall’esterno all’interno, dalla periferia (Manafort, Papadopoulos, Gates, Flynn, poi magari Kushner e Donald Jr.) al centro. E il centro è, manco a dirlo, il presidente. E’ Trump, il vero obiettivo dell’inchiesta di Mueller. Non rivelando i contatti tra i suoi uomini e i russi (contatti che lui stesso avrebbe richiesto), Trump ha mentito e intralciato la giustizia. L’intralcio alla giustizia sarebbe del resto dimostrato dalla decisione di Trump di licenziare il direttore dell’FBI, James Comey, che indagava sul Russiagate; e dalle pressioni dello stesso presidente su almeno tre repubblicani del Senato, Richard Burr, Mitch McConnell e Roy Blunt, perché chiudessero al più presto l’indagine parlamentare sulla Russia (le pressioni ci sarebbero state la scorsa estate e sono state rivelate dal New York Times).
A questo punto, vista la gravità delle accuse, non ci sarebbe altra scelta, anche per i repubblicani, se non l’apertura di un procedimento di impeachment contro Trump. Molto dipende, ovviamente, da quello che Flynn dirà agli investigatori. Nelle testimonianze, rese pubbliche in queste ore e che hanno condotto alla sua incriminazione, c’è già parecchio. Ma la possibilità, che terrorizza la Casa Bianca, è che Mueller e i suoi non abbiano rivelato le cose più importanti dette da Flynn, e che su queste preparino le prossime mosse.