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ColaborAmerica, un festival per riflettere sul futuro del pianeta

Un articolo de La Stampa web del 23 novembre scorso racconta delle periferie dimenticate del nostro Paese riportando, tra le altre cose, che “almeno 15 milioni di persone in Italia vivono in situazioni soggette a degrado situate nelle periferie ma anche nei centri urbani”. Significa più del 20% della popolazione totale e una percentuale ancora più alta di quella inurbata, ovvero stiamo raggiungendo quasi i livelli del Sudamerica.

Poche settimane fa è uscito un interessante libro del mio amico (e collega blogger de Il Fatto) Fabio Balocco intitolato semplicemente Poveri (Neos Edizioni). Una interessantissima inchiesta sulla situazione di degrado, abbandono e povertà a Torino, con conseguente aumento esponenziale di delinquenza e violenza, ma emblematica di tutta Europa. Una situazione che sembra essere senza via di uscita con “esperti” e politici che si affannano a “non” trovare soluzioni, anche perché probabilmente l’unica possibilità di riscatto sarebbe un colossale progetto di rieducazione che parta dai bambini e dalle scuole per arrivare a tutta la società, nella quale, tra l’altro, andrebbe ripensata tutta l’economia. Qualcosa di anni-luce troppo avanti per chi da una parte bada solo al proprio scranno e dall’altra passa il tempo a lamentarsi.

Un’affermazione utopica da morire dal ridere, se non fosse che invece in Brasile, per ora messo ancora molto peggio dell’Italia, qualcuno lo sta facendo. Dal 23 al 25 novembre scorso nella zona ristrutturata del vecchio porto di Rio, in uno degli edifici ha avuto luogo il festival ColaborAmerica, nel quale aziende, start-up, giovani, studenti, professori, professionisti, artisti, creativi del Brasile e del Sudamerica si sono incontrati per confrontarsi sui nuovi difficili, ma anche stimolanti scenari futuri del nuovo continente. I temi trattati: dai nuovi tipi di coltivazioni al disboscamento, dall’informatica all’arte, dalle Ong e associazioni di volontariato all’educazione, innovazione sociale, questione indigena, problemi razziali, comunicazione, economia consapevole, meditazione e nuove spiritualità, piante amazzoniche, cibo e nuove frontiere dell’alimentazione, cosmetici, tessuti, risorse idriche ed energetiche, nuove tecnologie, nuovi materiali. Insomma tutto quello che ha a che fare con le complesse connessioni del mondo odierno che sta rapidamente mutando muovendosi verso nuovi, in gran parte ancora inesplorati, paradigmi.

Nel festival si sono incontrati centinaia di giovani che si sono confrontati con professionisti e aziende su temi come nuova coscienza, minoranze etniche, rapporti diversi con il denaro che non siano solo quelli del profitto, ambienti anche di lavoro che diano molto più spazio alla qualità della vita, alle relazioni umane, all’importanza degli aspetti spirituali della nostra esistenza, alla cooperazione anziché alla competizione. Chiedono anche lo sviluppo di una nuova classe dirigente che abbia davvero una coscienza politica che non sia solo quella dell’interesse e della corruzione. Ma allo stesso tempo tenendo i piedi per terra, consapevoli del fatto che occorre creare opportunità concrete di lavoro e di scambio.

All’interno di un simile ambiente trovano largo spazio i gruppi indigeni e i loro sostenitori i quali, se da una parte sono vessati dal rapace sistema di consumo che vuole energia, minerali, legname e territorio agricolo, dall’altra potrebbero chiaramente essere, anziché una minoranza di poveretti da aiutare, una risorsa strategica per la cura dell’ambiente naturale e per lo sviluppo di un turismo culturale sostenibile.

L’incontro ha messo a confronto più di 1.500 imprenditori, leader, policymakers e ha visto partecipare a conferenze e workshop migliaia di persone, perlopiù giovani e giovanissimi. Un panorama nettamente diverso da quello della vecchia Europa nella quale, ahimè, giovani e giovanissimi sono in gravi difficoltà sul piano del lavoro e dell’inserimento sociale nonché totalmente demotivati. Lo credo bene che i cervelli fuggano all’estero. Oltre a maggiori opportunità pratiche vi si trovano anche più motivazione e fiducia nel futuro, per quanto difficile possa prospettarsi.

Si è tenuto un festival del futuro anche lo scorso maggio a Lodi, ma basta vedere età media, decenni di onorato servizio nel vecchio sistema e provenienza dei conferenzieri per rendersi conto dell’abissale differenza di punti di vista e paradigmi. Non possiamo che sperare che in Italia i giovani si dèstino e qualcuno cominci a chiedersi dove diavolo sia questa vittoria di cui si è tanto parlato.