Per dirla con Matteo Renzi, hanno perso i “gufi” e i “profeti di sventura”. Ma stavolta il gufo è lui. Insieme ai suoi fedelissimi e a centri studi, agenzie di rating e banche d’affari che, prima del referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale, avevano evocato scenari di caos politico e apocalisse economica in caso di vittoria del No. Un anno dopo, con il pil a +1,5%, l’Italia resta in coda alla classifica Ue ma ben lontano dal -0,7% paventato nel luglio 2016 da Confindustria. Ed è lo stesso Renzi a rivendicarlo, attribuendo il risultato ai suoi “1000 giorni”. Negli ultimi 12 mesi, poi, non si sono registrate drammatiche fughe di capitali né la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, il crollo del reddito pro capite e un’impennata della povertà, come vaticinava viale dell’Astronomia. Paghiamo ancora in euro, a dispetto del rischio Italexit paventato dal Financial Times. Secondo cui “fino a otto banche italiane in difficoltà” sarebbero state “a rischio fallimento“. In realtà gli istituti più deboli restano soggetti a turbolenze come lo erano prima del voto. Per quelli in cui è intervenuto lo Stato, la “soluzione di mercato” era chiaramente impraticabile da molto prima del dicembre 2016. La campagna referendaria, semmai, ha indotto il precedente governo a prendere tempo per non rischiare di perdere consensi. Aggravando i problemi.
L’apocalisse annunciata… – “Caos politico”. “Nuove elezioni da cui potrebbe non uscire una maggioranza parlamentare unica, alimentando ulteriore turbolenza e incertezza sulla governabilità del Paese”. Rialzo del rendimento dei Btp che “si riflette sul costo della raccolta bancaria e sul costo del credito pagato da imprese e famiglie”, con conseguente “aggravamento del credit crunch“, e sul deficit pubblico. Tanto da “minare la sostenibilità del debito pubblico”, “spingere le istituzioni europee a richiedere ulteriori manovre di correzione dei conti” e “determinare la necessità di un contenimento degli investimenti e della spesa pubblica”. “Fuga dei capitali” e “crollo della Borsa”. Occupazione che “diminuisce complessivamente di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbe di 319mila”, e “430mila persone in condizione di povertà”. In breve: “Una nuova grave emergenza economico-sociale, con inevitabili spinte verso soluzioni populistiche“. Cronaca dell’apocalisse annunciata dall’ufficio studi di Confindustria nel report La risalita modesta e i rischi di instabilità, datato luglio 2016. “Calcoli conservativi, che largamente sottostimano i veri effetti che si materializzerebbero”, rincaravano gli analisti dell’associazione degli industriali.
Anche agenzie di rating e banche d’affari, pur senza arrivare al catastrofismo di Confindustria, avevano prefigurato perlomeno una fase di pesanti turbolenze. Se Jp Morgan, come è noto, già dal 2013 auspicava robuste riforme nei “Paesi del Sud” con “Costituzioni influenzate da idee socialiste”, Goldman Sachs vedeva “un rischio concreto per le prospettive dell’Italia”. Fitch dal canto suo aveva avvertito: “La vittoria del no al prossimo referendum costituzionale sarebbe vista come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano”. Moody’s era convinta che “le prospettive per ulteriori riforme dipenderanno dal risultato del referendum”. Molto più misurata Standard&Poor’s, secondo cui la bocciatura del ddl Boschi non avrebbe comportato “effetti significativi sul merito di credito, a meno che non porti a uno stop alle riforme strutturali”.
…e com’è andata davvero: pil e occupati in salita, rendimenti Btp in calo – Come è andata davvero? Dopo le dimissioni di Renzi e un giro di consultazioni durato pochi giorni, l’11 dicembre il capo dello Stato Sergio Mattarella ha dato a Paolo Gentiloni l’incarico di formare il nuovo esecutivo, di fatto quasi una fotocopia del precedente. Niente elezioni anticipate: la legislatura andrà a scadenza naturale. L’economia, trainata dalla ripresa europea, secondo l’Istat ha accelerato: il pil è previsto in aumento dell’1,5% contro il +0,9% del 2016. Lo 0,6% in più dunque: esattamente la spinta (“il 6% del pil in dieci anni”) che l’allora ministra Maria Elena Boschi stimava sarebbe arrivata dalle “riforme politiche e istituzionali” poi bocciate dagli italiani. Poco male: ora la Boschi attribuisce il risultato alle altre “riforme portate avanti dal Governo dei mille giorni in poi”, assicurando che la crescita “non è frutto del caso o un miracolo“. E Renzi festeggia: “Quando siamo partiti il pil era al 2% ma aveva il meno davanti: -2%. Istat oggi dice che nell’ultimo anno il pil è stato quasi al 2%”. Confindustria stessa, del resto, a settembre ha ammesso che le piaghe d’Egitto non si sono materializzate: “Molto favorevole, così si presenta lo scenario economico alla ripresa autunnale”, si legge nella presentazione del rapporto. “Volano le esportazioni e il made in Italy continua a guadagnare quote di mercato; gli investimenti mostrano un vivace dinamismo”.
Quanto ai posti di lavoro, in questi 12 mesi si è rafforzata anche la crescita dell’occupazione. Gli occupati a ottobre erano 23,08 milioni, 227mila in più rispetto ai 22,8 milioni di dicembre 2016. I dipendenti a tempo indeterminato sono cresciuti di 41mila unità e quelli a termine sono 297mila in più, mentre sono in calo gli autonomi. Il tasso di disoccupazione è all’11,1%, contro il 12% del dicembre 2016. “Sono spariti i gufi anti JobsAct”, esulta puntuale Renzi ogni mese, tralasciando che dopo la sbornia degli incentivi alle assunzioni stabili (che con il Jobs Act non c’entrano) ora la stragrande maggioranza dei nuovi contratti è a termine.
Con le riforme sale il Pil, senza riforme sale lo spread. Avanti tutta, l’Italia ha diritto al futuro #passodopopasso
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 15 novembre 2016
Contrariamente ai foschi presagi di Confindustria e di Renzi, poi, nessuna impennata degli interessi sul debito pubblico. Anzi. Il piano di acquisto di titoli di Stato da parte della Bce ha continuato a dispiegare i propri effetti, con il risultato che – dopo una fiammata la scorsa primavera – il rendimento del Btp decennale viaggia intorno all’1,7%, in calo rispetto all’1,97% del dicembre 2016. Quest’anno, stando alla Nota di aggiornamento al Def, per il servizio del debito spenderemo 65,8 miliardi contro i 66,4 del 2016. Lo spread tra i titoli decennali italiani e i Bund tedeschi venerdì 30 novembre era a 138 punti. Nel novembre 2016, complice naturalmente l’incertezza sull’esito della consultazione, aveva superato i 180 punti.
Il bluff della “soluzione di mercato” per MontePaschi – E’ vero invece che il 22 dicembre 2016, 18 giorni dopo la vittoria del No, è fallito l’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena. Con il risultato che il governo Gentiloni, entrato in carica dieci giorni prima, ha dovuto varare in fretta e furia un fondo da 20 miliardi di euro e impegnarsi a ricapitalizzare l’istituto. Ma a scrivere l’esito dell’ennesima crisi di Rocca Salimbeni è stato l’esecutivo di Renzi. Che avendo sostenuto, il 22 gennaio 2016, che la banca era “risanata” e “ora investire è un affare“, ha volutamente rimandato la soluzione della crisi a dopo la consultazione fidandosi del piano di ricapitalizzazione messo a punto da Jp Morgan. A ridosso del voto, poi, la situazione di Mps è diventata un’arma di pressione sugli elettori. Complice la sponda delle banche d’affari (spesso direttamente coinvolte nell’operazione). Se vince il No, era per esempio la tesi di Goldman Sachs, l’instabilità politica spaventerà gli investitori che “potrebbero preferire aspettare in attesa di maggiore chiarezza” rendendo più probabile “una ristrutturazione di Mps con fondi pubblici” e l’attivazione del bail in. In realtà la strada scelta è stata quella della ricapitalizzazione precauzionale, con la conversione delle obbligazioni subordinate in azioni che lo Stato ha poi in gran parte riacquistato. Che la “soluzione di mercato” non fosse percorribile era comunque evidente già da tempo. Il salvataggio pubblico non è stato reso necessario dall’esito delle urne, ma solo ritardato per tener buoni i risparmiatori e convincere gli elettori che senza un Sì il Monte sarebbe saltato.
Anche il salvataggio delle venete fu solo rinviato – Quanto al crac di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, la crisi era conclamata già dal 2015. Nell’anno del referendum il governo ha esercitato la sua moral suasion sul sistema finanziario per promuovere la creazione del fondo Atlante, che avrebbe dovuto sostenere i loro aumenti di capitale. Come da copione, il piano è fallito: dopo essere diventato primo azionista dei due istituti e aver bruciato quasi 3,5 miliardi, il veicolo finanziato da istituti, assicurazioni e fondazioni ha gettato la spugna e il cerino è rimasto ancora una volta in mano a Gentiloni e Padoan. E’ seguito l’azzeramento degli obbligazionisti (che verranno in parte rimborsati), l’iniezione di soldi pubblici e la vendita a Intesa Sanpaolo al prezzo simbolico di un euro. Tutto pur di evitare il bail-in, che avrebbe coinvolto anche i correntisti con più di 100mila euro sul conto. Siamo pur sempre – di nuovo – in campagna elettorale.