Ho seguito l’assemblea fondativa di quella che i giornali hanno definito per mesi la “lista unitaria”, anche se non sarà l’unica. Se non siete fan dei King Crimson faticherete a ricordare l’attuale formazione, poiché nei mesi sono stati sostituti diversi componenti: restano Sinistra italiana e Possibile, escono Rifondazione e i civici del Brancaccio riuniti da Tomaso Montanari e Anna Falcone, entrano Movimento democratico e progressista e Piero Grasso, resta in bilico Giuliano Pisapia, impegnato in un progetto solista, che sembrerebbe orientato a decidere con chi schierarsi dopo le elezioni, dato che prima non si sa chi vince.
In platea c’erano 1500 delegati dai territori a votare le proposte dell’assemblea ma non c’era niente da votare: né un programma – se ne parlerà a gennaio – né un nome, né un leader. Non c’erano mozioni, non ci saranno primarie. Roberto Speranza di Mdp, Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, Giuseppe Civati di Possibile hanno dato per scontato che il capo politico del “quarto polo alternativo al Pd” sarà Piero Grasso, che fino a ieri era nel Pd. Grasso, intervenuto in quanto capo politico a chiusura dell’assemblea, ha a sua volta dato per scontato e che il nome della lista sarà “Liberi e Uguali”, declinato al maschile, per una lista di quattro maschi: le delegate – immagino lo scoramento – e i delegati devono averlo intuito incrociando le indiscrezioni dei giornali e lo slogan che Grasso ha scandito per tre volte alla fine del suo intervento.
Speranza, Civati, Fratoianni e Grasso sono entrati nel merito di alcuni specifici provvedimenti da adottare, citandone solamente due: la legge sul fine-vita e lo Ius soli. E nel merito di quelli da abolire, citandone solamente due: gli accordi Italia-Libia e la legge Bossi-Fini, la cui abolizione avevano già promesso nel 2013, quando erano coalizzati in “Italia Bene Comune”.
Nessuno dei quattro ha però citato la legge Fornero, il Fiscal compact, il pareggio di bilancio frettolosamente inserito in Costituzione, l’abolizione della Buona Scuola, dello Sblocca Italia, del Jobs act. Nessuno di questi provvedimenti è stato mai evocato, per l’intera mattinata. Gli interventi hanno seguito la traccia del documento unitario di Mdp, Possibile e Sinistra Italiana che Tomaso Montanari aveva rispedito ai mittenti definendolo “inaccettabile”, incompatibile con gli scopi del Brancaccio, che non si dava l’obiettivo di fare il socialismo ma almeno quello di abolire la legge Fornero.
Per quale motivo i provvedimenti più invisi dei governi Monti e Renzi non sono stati mai evocati dai “Liberi e uguali” che vogliono riconquistare gli elettori delusi? Non lo hanno fatto perché la gran parte dei protagonisti di “Liberi e uguali” hanno votato a favore di quei provvedimenti? A favore del pareggio di bilancio in Costituzione e dell’aumento dell’età pensionabile come Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema o a favore del Jobs act come Speranza?
Probabile, ma non sono sicura che evitare l’argomento, come fanno i fidanzati che tornano insieme dopo un tradimento, sia una buona idea. O ci si pente per gli errori del passato e ci si scusa e si spera che gli elettori siano disposti a perdonare, o si rivendicano quelle scelte come fa Matteo Renzi, puntando però a un elettorato diverso da quello che dal Pd si è sentito tradito o mai rappresentato.
Quel che è mancato negli interventi dal palco è l’ingrediente fondamentale di ogni convincente comizio politico: l’atto d’accusa nei confronti dei responsabili. L’indicazione dei nemici. Per Silvio Berlusconi erano i comunisti, per i 5 Stelle La Casta, per Salvini gli immigrati e la Bce. E per la sinistra? Per i Liberi e Uguali? Non si può far politica senza avversari. Se non si è avversari, si è complici.
Nel racconto dell’Italia impoverita descritta da Grasso, Fratoianni, Speranza e Civati, nessuno dei quattro “Liberi e Uguali” ha indicato i responsabili dello sfruttamento dei lavoratori che andavano evocando. Nessuno si è scagliato contro le politiche neoliberiste che hanno smantellato le tutele dei lavoratori e rafforzato quelle della grande impresa. Nessuno ha promesso battaglia contro chi ha salvato le banche invece delle persone.
Non sono mancati gli applausi della platea, composta in maggioranza da ex Pd, per Piero Grasso che nei modi e nei toni seri e garbati ricorda il Bersani del 2013. Da allora il rapporto di fiducia tra gli elettori e la sinistra si è però ulteriormente incrinato e il conflitto sociale è montato.
L’unica lavoratrice invitata a parlare è stata Laura, operaia Melagatti. Ha raccontato di come i dipendenti della ditta Veronese si siano avvicendati nel laboratorio per tenere vivo il lievito madre e riprendere la produzione nonostante l’azienda sia in concordato e i dipendenti dispensati dal lavoro: “La nostra non è stata una protesta – ha precisato mite – perché a Verona noi non.. beh, non…” e non trovava le parole per dire che a Verona non si usa, non si protesta davanti ai cancelli della fabbrica. Non era un picchetto, il loro era “Diciamo un presidio di resistenza”, ha concluso Laura con gentilezza, ringraziando tutti e ricordando che i lavoratori Melegatti sono ancora a rischio licenziamento.
Non so se a Verona non si usi protestare, so che – anche se sul palco di Liberi e Uguali non è stata invitata – c’è un’Italia in lotta in centinaia di fabbriche, magazzini, scuole e ospedali. So che quei lavoratori, quegli studenti quelle famiglie non si accontenteranno di una sinistra che all’atto fondativo denunci un unico sopruso: quello dei “quattro Fascisti”, come li definisce Grasso, che hanno fatto irruzione a Como.
“C’è un’onda nera che monta nelle periferie delle nostre città”, denuncia correttamente Grasso, ma non sono quattro fascisti che hanno impoverito e vessato milioni di italiani. Quattro fascisti cavalcano strumentalmente la rabbia e la paura come fa Salvini – che non a caso minimizza il gesto violento dei fascisti – ma non sono loro la causa della povertà che in dieci anni è triplicata, dell’esodo di massa dei giovani, della disoccupazione che in dieci anni è raddoppiata, dell’emergenza abitativa, del fatto che più di 11 milioni di italiani rinunciano alle cure mediche perché non hanno i soldi per pagarle.
Non sono quattro fascisti la causa degli esodati, del crollo dei laureati, dello spaventoso divario salariale tra uomini e donne, della mancanza di asili nido e case popolari. L’antifascismo è elemento necessario ma non sufficiente per dirsi e farsi sinistra. Se non ci sarà una sinistra in grado di additare i responsabili dello sfruttamento dell’uomo e delle risorse ambientali, di lottare contro l’austerity imposta dai trattati europei, di fermare la svendita del patrimonio pubblico, di investire nell’emergenza abitativa e nella scuola invece che nelle spese militari e negli F35, di sostenere il reddito dei lavoratori e liberarli dallo sfruttamento delle agenzie interinali, di sollevarli dai turni massacranti accettati in cambio del rinnovo di contratto e dall’auto-sfruttamento delle false partite Iva, se non ci sarà una sinistra in grado di combattere questa battaglia, quei quattro fascisti diventeranno 400mila.
È per questo che si stanno riunendo a migliaia, in tutta Italia, in risposta all’appello dei giovani dell’Ex Ospedale psichiatrico giudiziario – Je so pazzo. Non si riconoscono nella sinistra che non ha nemici e vogliono dare vita a una lista popolare che metta al centro la lotta alle politiche liberiste che hanno impoverito il 99 per cento a vantaggio dell’uno per cento. Hanno abbozzato un programma e si riuniranno ancora a Roma domenica 17, in un luogo da definire, perché le adesioni sono già migliaia e alla prima assemblea, convocata quando era saltata quella del Brancaccio, avevano riempito il Teatro Italia. Hanno aderito Rifondazione, l’Altra Europa, i consiglieri comunali e gli iscritti che in diverse città si sono autosospesi da Sinistra Italiana in polemica con la decisione del partito interrompere il percorso del Brancaccio. Hanno aderito l’Usb, il Partito comunista italiano, i No Tav, decine di collettivi universitari, i centri sociali, vecchi e giovani che non si erano mai visti e che non sapevano di lottare dalla stessa parte, per le stesse cose.
“Pensate che sia una cosa fattibile?!” ho chiesto alla vigilia della prima assemblea, poiché avevano l’aria di non essersi posti la domanda. “Pensiamo che sia una cosa che va fatta”, mi hanno risposto, con l’aria di chi si era posto questa domanda qui. Spesso la sinistra fa le cose sbagliate, ho pensato, perché si fa le domande sbagliate: “Come facciamo a rientrare in Parlamento?”
Ho seguito tutte le assemblee di tutte le sinistre e solo lì mi sono sentita nel posto che troppo spesso, nella vita sono due. Quello dove bisogna stare e quello dove si sta bene. A scuola e a ricreazione, al lavoro e in vacanza. Sono una sentimentale? Sicuro, ma ne faccio una questione politica.
Da donna, ragiono spesso sulla fortuna che mi è toccata in sorte rispetto alle mie sorelle che in passato e ancora oggi in gran parte del mondo, vengono obbligate a sposare l’uomo che le famiglie scelgono per loro. Penso a quante poche di noi hanno avuto la fortuna di conoscere l’amore e viverlo.
“Sono stata innamorata di un solo uomo”, ci raccontava durante un’intervista una mondina che aveva sognato di fare la sarta ed era sposata da sessant’anni: “Avevo quindici anni, lui mi faceva battere il cuore!”
«E Poi?», le ho chiesto. “Poi, ho sposato Giovanni”.
Sono tanti gli elettori di sinistra rassegnati a sposare Giovanni. Soprattutto i più anziani. Lo fanno in buona fede, per difendere il poco che resta. Alla prima generazione che guadagna meno dei padri, la prima senza il posto fisso, senza le ferie, senza la casa e la pensione, a loro che è rimasto poco da difendere e tutto da riconquistare rispetto ai genitori e nonni, tranne il fondamentale diritto a non sposare Giovanni, viene più naturale partire da qui: stare con chi ti fa battere il cuore. Non è fattibile finché non si fa. Con chi è in buona fede, da una parte e dall’altra, ci si ritroverà, perché non si sta insieme nelle liste, si sta insieme nelle battaglie.