L’amore, il dolore e lo smarrimento di fronte alla morte sono arrivati ieri nel tribunale a Milano.
È il processo a Marco Cappato, accusato di aiuto al suicidio di dj Fabo. Ma il mistero della nostra esistenza non è competenza dei magistrati. Non ci sono codici che possano spiegarlo e dare un senso. Eppure, forse perché non riusciamo a trovare risposte, chiediamo ai giudici di dirci come ci si debba comportare. È una tendenza tutta italiana: la politica non sa reagire alla corruzione e al malcostume, allora si chiede ai tribunali di fissare quel limite che non sappiamo darci da soli.
Perfino per il più insondabile dei misteri, la malattia che porta alla fine della vita, chiediamo ai giudici di darci una risposta. Ma alla fine in aula è emersa proprio l’impotenza dei nostri mezzi umani. Non è stata un’udienza. E le parole della madre e della compagna di Fabo, dell’infermiere che lo ha assistito con devozione, sono state soprattutto testimonianze d’amore, di umanità. “Vai Fabo, la mamma vuole che tu vada”, ha raccontato Carmen di aver detto subito prima che il figlio premesse il pulsante. E Valeria, il suo amore: “Gli dissi che sentivo di essere stata sconfitta dalla signora Morte. Ma lui mi rispose che non dovevo sentirmi sconfitta perché quella per lui era una vittoria. Fabo credeva in qualcosa sopra di lui, prima di morire mi assicurò che ci saremmo reincontrati, che lui si sarebbe trasformato in energia nell’universo” (il testo completo delle deposizioni è sul sito giustiziami.it).
Tra i banchi un giudice popolare nascondeva il volto per non far vedere le lacrime. Il pm porgeva un fazzoletto di carta ai testimoni. No, non è stata un’udienza. Perché non si può trovare un colpevole alla sofferenza umana. Forse qualcuno troverà una risposta – nell’amore dell’uomo o di un dio – ma non passando in un tribunale.
Certo, se esiste una denuncia – e in questo caso l’ha presentata lo stesso Marco Cappato per affrontare finalmente un nodo irrisolto del nostro diritto e del nostro sentire comune – i magistrati possono approfondire. Verificare che un uomo non sia stato indotto a togliersi la vita. C’è un rischio: la società, i parenti, gli amici accettano – o addirittura favoriscono – il suicidio perché non sanno o non vogliono aiutare le persone. Anche quando potrebbero continuare a vivere decentemente. Il nostro primo dovere resta assistere chi soffre.
Ma non era il caso di Fabo. E di tanti altri italiani che scelgono di andare a finire la loro esistenza in Svizzera. Non c’è odio per la vita nella loro scelta. Anzi, può essere un atto di passione e di libertà: di fronte alla sofferenza senza speranza ognuno deve poter scegliere.
Oggi per essere liberi bisogna andare in Svizzera, alla clinica vicino a Zurigo. Andateci, come è toccato al cronista, per capire cosa significhi: in una periferia anonima c’è una casetta di lamiera affacciata su capannoni industriali. È la “clinica” Dignitas. Accanto vedi un albergo, un supermercato, un bordello. E tu devi morire lì, compiendo gli ultimi metri della tua vita in mezzo a gente che mangia e va a lavorare; a famiglie che fanno la spesa; a ragazze seminude in vetrina.
È giusto così? Non sarebbe più umano e più dignitoso lasciare che ognuno si congedi in mezzo alle sue cose e ai volti delle persone che ama?
La legge cambia, perché nasce dal nostro modo di concepire la vita. La visione della morte è cambiata, non soltanto perché ormai la minoranza delle persone ha una fede in Dio. Quel Padre che, se esiste, comunque non ama la sofferenza. Non si compiace di un rifiuto disperato della fine (e di un ricongiungimento con lui).
Aiutiamo chi soffre, cerchiamo di fargli desiderare la vita finché è possibile. Questo è il nostro compito. Ma quando non c’è più speranza di guarigione e sollievo, lasciamo la libertà. La morte è anch’essa parte della vita. È il nostro saluto al mondo.