La compagnia delle coop fa i suoi interessi come tutte le aziende, ma il rischio secondo gli esperti è che invece di proteggere anche solo una fetta più piccola di cittadini, si finisca con il rimpinguare le casse delle assicurazioni mancando l'obiettivo della copertura sanitaria universale
Puntuale come un orologio, Unipol torna a bussare alla porta del governo di turno. E lo fa chiedendo maggiori incentivi fiscali per il welfare privato, cioè per quella fetta della popolazione che, talvolta in proprio, ma soprattutto per il tramite della propria azienda o cassa previdenziale e simili, decide di sottoscrivere una polizza assicurativa per mettersi al riparo dai possibili imprevisti della vita in campo sanitario. La richiesta del gruppo delle coop è arrivata al ministro del Lavoro – ed ex numero uno di LegaCoop – Giuliano Poletti, nel corso del frequentatissimo convegno annuale di Unipol sul tema. Eloquente il titolo scelto per l’edizione 2017 che cade a una manciata di mesi dalla prossima tornata elettorale: “A ognuno il suo welfare. Bisogni mutevoli, scelte individuali, risposte integrate”.
Il numero uno della terza compagnia assicurativa del Paese, che volente o nolente sarà tra i protagonisti del salvataggio in corso di banca Carige, ha spiegato che gli incentivi fiscali varati dal governo di Matteo Renzi in tema di welfare aziendale nella legge di Bilancio per il 2017 non bastano già più. Lo Stato deve nuove concessioni per favorire l’ascesa delle assicurazioni nella sanità. “Il welfare aziendale è certamente in forte ascesa, complici anche i primi incentivi introdotti dal governo – ha spiegato Cimbri – Certo, va stimolata e accelerata una tendenza che è già in atto con una maggiore a più ampia incentivazione fiscale”. Secondo il numero uno di Unipol non c’è più un unico interlocutore sul welfare, ma c’è “spazio per tutti. Per il pubblico, ma anche per noi privati”. Per questo è sostanziale “collettivizzare la domanda di welfare e giungere ad un’alleanza pubblico-privata”, ha spiegato ancora Cimbri.
Sul come raggiungere questo obiettivo, l’ad di Unipol non ha dubbi. Due gli strumenti principe: da un lato fondi territoriali che possono nascere su iniziativa pubblica ma vengano gestiti poi da privati, dall’altro il welfare aziendale. Un’area quest’ultima che Unipol conosce bene. E’ proprio qui, infatti che punta maggiormente la controllata UniSalute, molto attiva negli accordi collettivi che stanno dando i loro frutti. Il “centro di eccellenza di Unipol nel comparto salute” ha chiuso il 2016 con 5,4 milioni di clienti e oltre 40 milioni di utili, forte di premi in crescita del 13% circa a quota 400 milioni di euro, quasi metà andati in risarcimenti. Su questo fronte, all’aumento delle denunce di sinistro (440mila in più del 2015) non è corrisposto un pari incremento di liquidazioni (230mila in più del 2015). Quasi raddoppiati, invece, i reclami dei clienti contro la compagnia rilevati nel registro della vigilanza sulle assicurazioni: oltre 2100 più della metà dei quali sono stati accolti.
Quanto alle richieste alla politica, non è la prima volta che Unipol va alla carica. Del resto, un maggiore sostegno pubblico al welfare privato spalancherebbe alle compagnie le porte di un promettente mercato: gli italiani spendono infatti circa 37 miliardi l’anno per pagare di tasca propria le spese mediche. Di questa cifra attualmente solo il 10% è intermediato dalle compagnie. Non si tratta certo di bruscolini neppure per Unipol che attraverso UniSalute a fine 2016 controllava il 13% circa del mercato del ramo malattia. Il problema è però che per la collettività il welfare privato non è affatto un grande affare: “Incentivandolo con soldi pubblici, si taglia a tutti per dare a pochi”, sintetizza Stefano Cecconi, responsabile welfare e sanità della Cgil. “Le agevolazioni fiscali non sono altro che denaro dei contribuenti che va a vantaggio solo di un numero ristretto di persone. Non è questa la strada per il futuro. Bisogna invece riprendere a investire nella sanità pubblica”, puntualizza aggiungendo che al massimo è possibile immaginare forme private di welfare integrativo. Certamente non di carattere “sostitutivo” che possono mettere a rischio il modello universale della sanità italiana e spingere il Paese verso un sistema simile a quello americano dove solo chi ha i soldi può poi realmente curarsi.
Non solo. Quando poi arriva il sinistro, non è detto che il sistema assicurativo risponda come ci si attende. “Al momento della sottoscrizione della polizza, non ci sono mai problemi. I guai arrivano poi quando ci si ammala perché le assicurazioni si appellano ai mille cavilli nei contratti, di difficile interpretazione persino per gli specialisti del settore, per respingere le richieste di rimborso”, spiega Massimo Quezel, fondatore e responsabile di Studio Blu, network specializzato nel settore recupero danni. “Si tratta ormai di una modalità operativa per ridurre gli esborsi e fare una sorta di scrematura iniziale che scoraggia e sfianca l’infortunato il quale si trova in uno stato di debolezza e ha bisogno di denaro per curarsi”, prosegue. Insomma, “il rischio che la copertura non sia garantita è sempre dietro l’angolo – spiega l’esperto – Mi è capitato il caso di una cliente che, con il marito, aveva sottoscritto una polizza assicurativa a garanzia del prestito bancario, la quale avrebbe dovuto, in caso di morte di uno dei contraenti, coprire il debito residuo con la banca. Ebbene, il marito della signora viene a mancare dopo due anni a seguito di un grave tumore ai polmoni (patologia coperta dalla polizza) ma, poiché il malcapitato soffriva di ipertensione arteriosa, la compagnia negò l’indennizzo in quanto tale patologia non era stata segnalata in sede di stipula del contratto”.
La questione si complica se poi a scegliere il contratto non è stato un privato, ma il datore di lavoro grazie agli incentivi offerti dal governo per il welfare aziendale. “Quando queste polizze sono proposte come fringe benefit dovremmo chiederci chi gode realmente del ‘beneficio’ – conclude Quezel – Senz’altro il datore di lavoro ha un vantaggio fiscale, ma si può realmente dire che ha un beneficio anche il dipendente? In altre parole, siamo sicuri che quella polizza, alla prova dei fatti, sarà un prodotto valido e in grado di garantire adeguate coperture? Il dipendente dovrebbe essere informato sulla reale qualità del prodotto che gli viene fornito in luogo di un riconoscimento economico, perché se ottiene come fringe benefit una polizza che, nella pratica, prevede vincoli e franchigie troppo restrittive, di fatto non avrà alcun vantaggio concreto”. E, alla fine, non solo lo Stato avrà investito nel welfare privato magari a danno della sanità pubblica, ma, lungi dal proteggere anche solo una fetta più piccola di cittadini, avrà finito solo col rimpinguare le casse delle compagnie assicurative mancando l’obiettivo della copertura sanitaria universale.
Resta da capire quale sarà la forza di persuasione di Unipol che già in passato si è distinta per una incessante attività di lobby. Come quella per modificare a proprio favore la riforma della Rc Auto nel 2013-14. Manovre in seguito finite al vaglio della magistratura torinese come reso noto la scorsa estate dalla Stampa, alla quale Cimbri ha risposto con una denuncia per rivelazione del segreto istruttorio sfociata in immediate perquisizioni a carico dell’autore dell’articolo. La denuncia però in pochi giorni si è rivelata talmente infondata che il perquisito ha ricevuto una lettera di scuse dalla procura del capoluogo piemontese.