Il sacro principio di uguaglianza dovrebbe sorreggere la società civile. Eppure non è proprio così, perlomeno nel diritto di famiglia, vero campo di battaglia e di confronto di posizioni che sulla carta sono eguali concernendo diritti della persona. Nella sostanza invece i diritti della donna e della madre, dell’uomo e del padre, sono posti su piani ben differenti. Quasi su costellazioni diverse.
Fino a due anni fa, quando una coppia si scindeva assistevamo alle seguenti prassi consolidate (ma non scritte) da parte di tutti i tribunali italiani:
1) la donna contava spesso su un assegno di mantenimento, anche vita natural durante al pari di una impropria rendita vitalizia, stabilita un base al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e sul reddito del coniuge. Indifferente che il tenore e il reddito fossero destinati a mutare nel tempo. I giudici avevano creato il crio-matrimonio;
2) l’affidamento condiviso introdotto nel 2006, proprio per rimuovere i danni dell’affidamento esclusivo, veniva immediatamente sostituito dal falso affidamento condiviso secondo il quale la mamma rimaneva sempre – anche nelle situazioni più abnormi – “collocataria” della casa e dei figli. I giudici avevano creato il super genitore. All’opposto, il papà veniva trasformato con un colpo di bacchetta in “sloggiato” (prego: lasci la casa e vada dove vuole), “frequentatore” dei figli (come un estraneo) e “pagatore” (debitore ma senza neanche poter esaminare il conto);
3) molte volte, il genitore collocatario si arrogava pure il potere di alienare il genitore non collocatario, con il benestare dei tribunali;
4) le spese straordinarie di mantenimento (quelle extra assegno, tanto per intenderci) che pure possono avere un peso notevole, invece di essere appunto solo quelle imprevedibili (ad esempio spese mediche o dentistiche impreviste etc.) come pure la lingua italiana insegna, sono divenute tutto un fiorire di voci ordinarie (dai libri scolastici alle rette scolastiche, dalla gita annuale allo sport) introdotte da impropri protocolli disseminati a pioggia sul territorio italiano, spesso in modo difforme ed ora sublimati dalle linee guida del Consiglio nazionale forense 29.11.2017, pur se nell’intento di uniformare tali protocolli.
Prassi che soltanto di recente, nell’ultimo biennio, ha trovato inversioni di tendenza con vagiti giurisprudenziali importanti (sul calcolo dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge debole e sulla opportunità di tenere conto della sua possibilità di lavorare; sul riconoscimento di prestare attenzione all’alienazione genitoriale; sul collocamento dei figli anche se piccoli presso il papà; sulla prevalenza del mantenimento diretto e tempi paritetici genitori-figli etc.) e con il varo di Protocolli assai importanti inerenti l’autentica applicazione dell’affidamento condiviso (tribunale di Brindisi). Vagiti anche autorevoli che però trovano ancora e subito reazioni giurisprudenziali di segno opposto. Una reazione conservatrice.
Il diritto di famiglia, per come viene declinato ancora oggi, è la crassa manifestazione di come la donna non sia uguale all’uomo. Infatti la donna è molto più uguale rispetto all’uomo.
Occorre ricordare come la donna abbia conquistato il diritto all’aborto e al parto in totale anonimato, lasciando in adozione il figlio senza nemmeno aver l’obbligo di avvisare il padre naturale. All’opposto, all’uomo non viene di fatto riconosciuto il diritto di rifiutare la paternità naturale. Invero la Corte di Cassazione sentenza 1.6.2017, n. 13880 ha statuito che “le situazioni della madre e del padre non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza o a rimanere anonima non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale”.
Il padre ha dunque l’obbligo di riconoscere il figlio mentre la madre no. All’uomo non è più consentito sottrarsi senza conseguenze al test del dna per il riconoscimento della paternità richiesta dal figlio, poiché il giudice potrebbe ritenere con ciò provata la paternità e riconoscere il rapporto di filiazione.
Secondo la Cassazione la questione non può essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale per la violazione dell’art. 3 della Costituzione, sull’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna, in quanto il rifiuto alla paternità è dettato spesso dalla volontà di sottrarsi agli obblighi economici e alle responsabilità che derivano dalla filiazione, ed è interesse non degno di tutela. Mentre il rifiuto alla maternità, spesso connesso a ragioni di carattere personale è interesse degno di tutela perché rivolto a garantire la dignità umana e il rispetto della persona della donna.
Pertanto anche quando l’uomo viene ingannato durante il (non) concepimento potrà poi essere chiamato in giudizio a farsi carico di una filiazione mai voluto. E all’apposto egli continua a non avere alcuna voce in capitolo se la donna decida di abortire.
Non vorrei scomodare, né profanare Primo Levi, ma spesso mi domando “Se questo è un padre”.