Un capo della ‘ndrangheta emiliana risultava nullatenente e nullafacente, tanto da vivere in un appartamento di edilizia agevolata a Cremona pagando 150 euro di affitto al mese. Eppure a San Silvestro era solito organizzare una grande festa nella sua splendida villa di Cutro, con oltre 100 invitati e fuochi d’artificio da fare invidia a Versailles. Si tratta, secondo il pentito Salvatore Muto, di Francesco Lamanna, classe 1961, residente a Cremona dal 1986. E’ uno dei sei uomini di vertice della consorteria legata ai Grande Aracri, condannato di recente a 22 anni complessivi di carcere nei riti abbreviati del processi Pesci e Aemilia.
La storia della sua vita la sta raccontando nell’aula bunker di Reggio Emilia, nel corso delle udienze del maxi-processo per ‘ndrangheta, il pentito Muto, che di Lamanna era uomo di fiducia e inseparabile braccio destro. “Lui comandava a Cremona e Piacenza e nella consorteria aveva raggiunto il grado di padrino, come il capo di Reggio Emilia Nicolino Sarcone”. La parità però, sostiene Muto, non lo soddisfaceva e nel 2011 Lamanna decise di correre a Cutro per approfittare di uno dei rari periodi in cui Nicolino Grande Aracri era fuori di galera. Il boss gli conferì allora una “dote” in più e il diritto di sostituirlo in caso di nuovo arresto. “Per questo Nicolino Sarcone era un po’ invidioso di lui”, racconta Muto, “perché Lamanna era il preferito e Grande Aracri gli diceva: quando non ci sono io tu sei il padrone della mia casa”.
Di questa invidia, o gelosia, Nicolino Sarcone fece l’errore di mettere al corrente Michele Colacino, uomo e prestanome della ‘ndrangheta residente a Bibbiano, culla del Parmigiano Reggiano. Era un amico di Lamanna che dava da lavorare a sua figlia Carolina e gli andò subito a raccontare la cosa. Ne venne fuori una riunione burrascosa con tutta la famiglia Sarcone: “Giuseppe, Carmine e Gianluigi, i fratelli di Nicolino, diedero ragione a Lamanna” racconta Muto. Segno che l’autorevolezza del capo di Cremona arrivava a spaccare anche la naturale solidarietà di famiglia. A Michele Colacino comunque bruciarono poi due auto, segno anche che parlare troppo nella ‘ndrangheta non è buona cosa.
Della festa di fine anno Salvatore Muto parla nell’ultima udienza del 5 dicembre al processo Aemilia sorridendo: “Pagava 150 euro al mese di affitto nelle case popolari a Cremona. Con 150 euro non ci paghi neanche… Poi però spendeva almeno 10mila euro di fuochi d’artificio per salutare l’anno nuovo con tutti gli invitati nella sua grande villa giù, a Cutro”. Di botti a Cutro Lamanna ne fa scoppiare anche d’estate, specialmente il 17 agosto durante la festa di San Rocco: “Lui aveva rapporti con don Ciccio, come lo chiamiamo noi. E’ stato per trent’anni il parroco di Cutro, poi adesso è andato via. E Lamanna si dava da fare assieme a lui a raccogliere dei fondi per comprare i fuochi d’artificio per la festa”. Di questa storia non si sa altro perché i verbali sono omissati dopo che Salvatore Muto parla di un certo Aldo Boerio, nipote del parroco, che Lamanna aiutò a trovare lavoro.
Non era un grande esperto di economia Francesco Lamanna e Salvatore Muto usa un paragone colorito per spiegarlo: “Era come Ernesto Grande Aracri, il fratello di Nicolino, che se gli davi mille euro lui se li teneva e basta. Non capiva niente di questioni societarie e di finanza. Non si interessava delle attività, con lui potevi parlare solo di soldi. Quanto avere e quanto dare: non gli interessava come arrivavano”.
Aveva invece il fiuto per il marketing e la comunicazione d’impresa, o meglio di ‘ndrangheta, tanto da organizzare una sorta di sagra per promuovere l’immagine dei calabresi al nord. Una tre giorni “Calabria-Cremona” sponsorizzata da aziende della consorteria per 30mila euro sia nel 2011 che nel 2012. Francesco Lamanna con queste iniziative teneva vivo il “rispetto” di cui godeva il padre commerciante, che portava in giro il suo carretto con la frutta nei paesi nel circondario di Cutro: da Mesoraca a Petilia Policastro, da San Leonardo a Isola a San Mauro Marchesato. “Tutti avevano rispetto di lui” dice Salvatore Muto. E si badi bene che in questa storia il termine “rispetto” significa “rispetto dalla ‘ndrangheta ad un uomo di ‘ndrangheta”.