Salvatore Muto, nel corso delle udienze in Aula del maxi-processo, ha attaccato i due imputati Giuseppe e Vincenzo. Il genitore, sentendo la deposizione in videoconferenza si è alzato e ha gridato: "Non si può permettere di infangare il nome di un calciatore della nazionale campione del mondo"
Il 5 dicembre nell’aula bunker di Reggio Emilia il pentito Salvatore Muto lancia l’ennesima accusa a Giuseppe Iaquinta e al figlio Vincenzo, calciatore ed ex campione del mondo con la nazionale italiana in Germania nel 2006. Entrambi sono imputati nel maxi processo per ‘ndrangheta Aemilia. “Gli Iaquinta li conosco da anni, sono legati alla consorteria. Sono persone che venivano favorite sui lavori”. Poi rincara la dose spiegando che Giuseppe aveva chiesto ad esponenti della ‘ndrangheta se potevano aiutarlo per spingere prima l’Udinese e poi la Juventus a fare giocare Vincenzo, o in alternativa a metterlo sul mercato, perché il calciatore passava troppo tempo in panchina con entrambe le squadre.
“Eravamo a pranzo” racconta “e ne parlavamo con Alfonso Paolini e Nicolino Sarcone. C’era pure Francesco Lamanna”. Sono tre personaggi di primo piano del processo. Paolini è l’uomo introdotto secondo la DDA negli ambienti della Questura di Reggio Emilia, dalla quale otteneva lavori per le imprese della ‘ndrangheta e rinnovi di porto d’armi per gli associati nonostante il parere contrario della Prefettura. Sarcone e Lamanna sono due dei sei capi a processo: il primo a Reggio Emilia, il secondo a Cremona e Piacenza. Lamanna ha già rimedito una trentina d’anni di galera nei riti abbreviati dei processi Pesci, Kyterion e Aemilia.
Prosegue Salvatore Muto: “Il portavoce della richiesta di Iaquinta era Paolini. Si è discusso su chi, come e quando si poteva intervenire e Lamanna disse in quell’incontro la sua idea di interessare della vicenda alcuni amici di San Mauro Marchesato che operavano a Torino. Cinque persone vicine a Lino Greco (potente killer della cosca che gestiva affari illeciti tra Piemonte e Liguria). Chiese in cambio a Paolini di farsi dare da Iaquinta una tuta della Juventus, perché Lamanna andava sempre in giro con la tuta e ci teneva. Un’altra possibilità uscita dalla discussione era contattare Luciano Moggi del quale sia Paolini che Iaquinta erano amici, ma l’ex dirigente non era più alla Juventus e così alla fine poi non si è fatto niente”.
Al temine di quell’incontro però Lamanna spiega al fido Muto, suo braccio destro a Cremona, che non era la prima volta di una richiesta così originale da parte di Iaquinta. Alcuni anni prima la stessa storia aveva riguardato l’Udinese, dove pure Vincenzo era finito in panchina senza giocare. In quel caso Lamanna dice d avere saputo da Ernesto Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, che lui aveva ordinato al nipote Rosario Porchia di andare con alcuni suoi uomini a minacciare l’entourage della Società affinché facesse giocare o mettesse in vendita il calciatore.
“La cosa è avvenuta” dice Muto in aula, “o almeno così ha detto a me Lamanna”. Ernesto Grande Aracri venne poi arrestato per la sua appartenenza alla ’ndrangheta e dal carcere, racconta ancora Salvatore Muto, chiese a Iaquinta un paio di scarpe da calcio in cambio del favore fatto. “Tre volte Ernesto ha dovuto chiedere quelle scarpe prima di riceverle” dice Lamanna a Muto nel commentare con ironia la storia: “Non è che anch’io devo chiedere la tuta tre volte prima di averla? E comunque” aggiunge “non si può intervenire per tutte le stupidate che chiede Iaquinta!”.
Quella tuta poi arrivò al capo di Cremona ma più che i gadget della Juventus o dell’Udinese, Giuseppe Iaquinta in questo processo soffre le tante storie raccontate dai collaboratori di giustizia e dalle indagini della Direzione Antimafia che lo incastrano in compagnie e in luoghi imbarazzanti. Dalla cena al ristorante “Antichi sapori” dove gli imprenditori della ‘ndrangheta si accordarono con il capogruppo di Forza Italia in Provincia Giuseppe Pagliani (condannato in abbreviato a quattro anni di carcere più uno di libertà vigilata), agli incontri estivi della consorteria nel resort di Porto Kaleo giù a Crotone.
Sia il padre Giuseppe che il figlio Vincenzo hanno mostrato di mal sopportare in aula le deposizioni e i riscontri che li riguardano. Attraverso il loro legale Carlo Taormina hanno tentato di far processare il prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro (oggi prefetto a Palermo) per falso ideologico e abuso d’ufficio (denuncia archiviata). In più occasioni si sono o sono stati allontanati dall’aula per le loro esternazioni che in almeno un caso hanno risuonato come minacce, durante l’udienza del 25 luglio scorso. Giuseppe Iaquinta si alza mentre il pubblico ministero Mescolini interroga un testimone e sbotta: “Questo è accanimento. Non tiri fuori niente, non hai niente in mano!” E mentre esce dall’aula scortato da due agenti si gira con il braccio proteso verso il procuratore antimafia e urla: “Ci hai pure tu una famiglia. Vedrai!”. Per il figlio Vincenzo invece le domande del pubblico ministero “sono assurde, non hanno senso” e se ne va sbattendo la porta.
Qualche giorno fa l’ultimo scatto di Giuseppe. Salvatore Muto in videoconferenza sta raccontando i dettagli delle presunte minacce ai dirigenti dell’Udinese e il padre del calciatore si alza e urla: “Questo qui io lo conosco solo di vista e non si può permettere di infangare il nome di un calciatore della nazionale campione del mondo!”. Il presidente della corte Francesco Maria Caruso interviene e lo zittisce: “Iaquinta, lei non può minacciare il collaboratore!”. E’ ormai quotidiana amministrazione per il processo.