Il 16 maggio 1974 usciva sul Corriere della sera un articolo sul fascismo degli antifascisti. In quel testo l’autore, Pierpaolo Pasolini, denunciava l’ambiguità delle reazioni dei cosiddetti antifascisti nei confronti del riemergere di manifestazioni da parte di frange dell’estrema destra giovanile che inneggiavano all’esperienza del ventennio mussoliniano. “In realtà – scriveva Pasolini commentando i discorsi indignati della politica e dell’intellighenzia istituzionale – ci comportiamo con i fascisti, e parlo soprattutto di quelli giovani, razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale. Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male”.
In questi giorni il mantra del ritorno dei fascisti, i discorsi di accusa pronunciati da politici e giornalisti di ogni ordine e grado, le manifestazioni militanti tese a riaffermare i valori fondanti della libertà e della giustizia non si sprecano. Anche l’ex premier Matteo Renzi si è unito al coro commentando con un emblematico quanto vuoto, “bellissimo”, la sfilata dei migliaia di manifestanti a Como contro l’irruzione dei ragazzi di “Veneto fronte skinead” a una riunione di associazioni pro migranti.
Rilanciare un’offensiva mediatica e politica antifascista nel 2017 ha naturalmente un valore simbolico molto importante, perché la Repubblica italiana si dovrebbe basare su principi democratici contrari a ogni forma di totalitarismo e discriminazione. Ma questo non dovrebbe esimere dal domandarsi per quali ragioni un numero sempre maggiore di giovani è attratto da ideologie totalitarie e abbraccia gruppi come Forza Nuova o CasaPound di dichiarata ispirazione fascista.
Quali sono le motivazioni del riemergere del Male, si chiederebbe Pasolini se fosse ancora in vita. E’ sufficiente per avere la coscienza pulita stigmatizzare queste azioni? Possiamo attribuire solo a nuovi cattivi maestri o giovani esaltati la responsabilità del ritorno a slogan e iconografie che speravamo di avere dimenticato? O si tratta anche di qualcosa di altro, di meno visibile, più sottile ma non per questo meno micidiale?
Se l’investimento in istruzione non fosse stato oggetto di tagli trentennali da parte dei diversi governi di centrodestra e centrosinistra e l’Italia avesse ancora a cuore la cultura e l’educazione (non quella della buona scuola aziendalizzata o dei bonus giovani pro Amazon) qualche analogia con il periodo antecedente alla nascita del fascismo negli anni Venti non sarebbe difficile da individuare.
La crisi economica che attanaglia il ceto medio, la distruzione sistematica delle sicurezze del welfare, la tutela delle rendite di posizione, la precarizzazione occupazionale, e l’aumento delle diseguaglianze hanno contribuito ad aumentare in modo drammatico la rabbia sociale. La gestione dei flussi migratori centrata interamente sull’accoglienza e incapace di garantire percorsi di reale integrazione ha al contempo favorito il diffondersi di sentimenti di insicurezza che costituiscono l’humus culturale della ricerca di una nuova supremazia nazionale degli autoctoni rispetto ai nuovi arrivati.
La politica che è stata complice per un trentennio di questi processi di disgregazione del tessuto economico e sociale non solo non ha compreso la gravità dei processi di frantumazione in atto ma ha chiuso entrambi gli occhi a lungo rispetto allo sdoganamento delle culture politiche antidemocratiche diventate oggi il nuovo moloch da combattere in nome della democrazia istituzionale. Berlusconi, il futuro alleato del Partito Democratico, è stato il primo a riconoscere legittimazione nell’alveo costituzionale ai vecchi fascisti e ex fascisti di Alleanza nazionale. La cosiddetta sinistra democratica, dilaniata da continue liti per il controllo della leadership interna che ricordano i conflitti del movimento socialista diviso tra il massimalismo di Menotti Serrati e il riformismo pragmatico di Turati e Treves è stata protagonista delle pagine più infamanti della democrazia nazionale contribuendo alla caduta dell’Ulivo e all’avvento dei rottamatori del partito padronale di Renzi. Incapaci di cogliere le dinamiche della società, ministri e deputati di ogni partito trascorrono ormai le serate a litigare in televisione in cerca di un’audience che preferisce, sfinita, emigrare sul canale della finale del Grande Fratello.
In questo quadro da fine Impero, è facile attribuire ai giovani di Forza Nuova o CasaPound la patente di neofascisti e di adepti del Grande Male. Cosa ci sta dietro manifestazioni di intolleranza e razzismo esplicitato in modo così gretto e sfrontato nessuno o quasi se lo chiede. Forse è solo ignoranza rispetto alla storia. Forse arroganza. O forse c’è anche altro.
Chiedersi perché questi ragazzi hanno scelto la strada della contestazione radicale del sistema economico politico e sociale dominante non è naturalmente semplice. Vorrebbe dire anche domandarsi quanto noi tutti, come cittadini, elettori e italiani, abbiamo contribuito allo sfascio della nostra nazione.