Mancano tanti pezzi. Quando ho finito di scrivere e riscrivere il mio lungo servizio per FqMillennium di dicembre, mi sono reso conto delle tante cose che non vi hanno trovato posto. Vittime dei limiti di spazio e della bulimia narrativa. Ancora adesso i momenti vissuti a Torino in quella settimana di novembre si rincorrono nella mia testa. Le facce delle persone che ho incontrato si sovrappongono. Le voci si moltiplicano. E, dannazione, questo dettaglio non l’ho raccontato. Questo sentimento non l’ho trasmesso. La storia di quel tizio è stata sacrificata…
Il rischio, quando scrivi un pezzo che ha alle spalle un lavoro così lungo, che riguarda la vita di così tante persone, è di banalizzare, sintetizzare, tagliare, omettere. Da qui l’esigenza, a costo di sembrare autoreferenziale, di scrivere queste poche righe, per mettere in ordine i sentimenti e riparare ai torti – involontari quanto inevitabili – cui ho dato forma nel mio articolo.
Sgombro subito il campo: non ho la presunzione di aver reso la condizione dei senza dimora nella sua complessità. Qualunque operatore, qualunque utente, avrebbe da mettere in fila chilometri di esperienze e di racconti più esaustivi e fedeli del mio. Allora perché mettere il naso in quel mondo? Per fare il pieno di emozioni, per farsi stupire dalla normalità assurda di vite vissute ai margini. Un bagaglio emotivo che ho provato a raccontare, mischiandolo ai fatti e agli accadimenti del mio soggiorno torinese. Spero di esserci riuscito, almeno in parte.
Detto questo, ciò che mi è successo a Torino lo si può leggere sul numero di FqMillennium in edicola dal 9 dicembre e fino a tutto gennaio. Gran parte di quello che manca riguarda me, e i conti che ho dovuto fare con la mia persona, i limiti che ho dovuto superare.
Quello che manca sono sicuramente i sensi di colpa e i rimorsi. Quello che ho provato quando ho fatto il colloquio con la prima operatrice, nell’ufficio di via Sacchi, dove non ho trovato solo un luogo che mi restituiva una sensazione di miseria, ma anche una persona gentile, che ha messo in campo tutta la sua professionalità. Una persona cui ho rifilato una serie di balle a testa bassa, approfittando della sua fiducia e della sua funzione. Quello che ho provato quando sono stato nei dormitori occupando il posto di qualcun altro. Qualcuno che è rimasto fuori al posto mio. Che ha dovuto arrangiarsi, accomodarsi nella sala d’attesa di un pronto soccorso o chissà dove.
Quello che manca è la paura di aver giudicato in maniera troppo frettolosa e sommaria i luoghi e i servizi che mi sono stati messi a disposizione. Luoghi e servizi che ho guardato con gli occhi di una persona a cui non manca nulla. Quelle pareti brutte e disadorne, forse, dopo qualche settimana potrebbero sembrare accoglienti e familiari anche a me, con la certezza che nessun pasto può essere peggio della fame e nessun letto peggio della strada. Quei modi sbrigativi e quella mancanza di profondità nei rapporti, forse, sono giustificati da un contesto decisamente poco favorevole, in cui prevalgono la diffidenza e la tendenza all’autoconservazione.
Mancano distinzioni, puntualizzazioni, virgole, punti di vista. Manca qualche risata, che pure c’è stata. Perché anche nella assurda tristezza della solitudine si riesce a trovare di che essere divertiti. Battute da caserma. Comicità da strada. Ironia tagliente. E tutte le volte in cui un sorriso è stato il miglior antidoto alla rabbia.
Quando ho finito la mia immersione nel mare della povertà ho provato un grande senso di sollievo. Sollievo per la fortuna di non essere in quelle condizioni. Sollievo di potermi arrabbiare con i miei figli perché mi fanno spendere troppi soldi. Sollievo nell’avere un mutuo da rimborsare o dei colleghi che ogni tanto ti fanno incazzare.
Ho lasciato Torino con treno da Porta Susa alle 11 di sabato. Minuto più, minuto meno. Un ultimo sguardo ai portici davanti alla vecchia sede Rai, dove la sera prima mi sono imbattuto una coppia di giovani stranieri. Poi l’assurdo scambio di battute con un’istrionica donnina che mi ha intrattenuto mezz’ora parlandomi delle condizioni di vita in questo presente che non ha rispetto per nessuno e permette che la gente viva buttata in terra. Che non c’è lavoro. E che si stava meglio quando si stava peggio. Che allora la dignità veniva garantita. Dopo averle rifilato un numero di cellulare falso sono corso al binario.
In treno ho provato a compilare una assurda classifica delle cose che più mi sono mancate in questo campionato della sfiga a cui ho preso parte. Avrei gioco facile a dire che mi sono mancati mia moglie e i miei figli. Potrei raccontare che mi sono mancate la serenità, la libertà nella gestione del mio tempo e la libertà di muovermi nello spazio. Che mi è mancata la bellezza, quella sensazione di calda accoglienza che deriva da un luogo curato. Mi è mancata la privacy, uno spazio intimo, mio, esclusivo. Sicuramente queste cose tutte insieme. Ma se devo fare dieci esempi concreti, dieci oggetto di cui ho sentito realmente la mancanza almeno una volta nei giorni passati a Torino, tra queste ci sono di sicuro il caffè; la musica; gli aperitivi; la partita di basket di mio figlio; gli abbracci; la colazione; un gabinetto comodo; la mia cucina; il mio letto e il caffè (lo so, l’ho già scritto. Ma mi è mancato almeno quattro o cinque volte al giorno).
Insomma, mi sono mancate le cose e i momenti che mi fanno stare bene. Cose che fanno la differenza tra una vita serena e la piatta sussistenza della strada.
Mentre il treno si lasciava alle spalle la città ho dovuto fare i conti con tutto quello che avrei potuto fare in più e meglio. A Santhià ha cominciato ad affiorare la fame, una fame che nei miei giorni da senza dimora non ho mai provato. Pieno di una sazietà pigra e passiva, che non mi ha mai concesso il piacere e la soddisfazione di un pasto meritato. Di quelli buoni, che ti riempiono due volte.
A Milano ho ripreso contatto con la mia realtà. Per tornare ad essere me stesso mi ci sono voluti ancora un paio di giorni e parecchi caffè.
Il reportage completo è sul nostro mensile FqMillennium, in edicola dal 9 dicembre