Questa volta è stato lo scoppio al centro di smistamento del gas di Baumgarten in Austria. Altre volte sono state le tensioni tra Russia e Ucraina. Il risultato è sempre lo stesso: riduzione dei flussi di combustibile in arrivo in Italia, con il rischio di un aumento dei prezzi. Questione da ricondurre al più ampio problema della nostra storica dipendenza energetica dall’estero: importiamo il 76% dell’energia che consumiamo. Dato a cui contribuiscono fattori come la scarsità di giacimenti di combustibili nel nostro territorio e la rinuncia al nucleare. Nell’Unione europea, che comunque nel suo complesso importa il 53% dell’energia consumata, ci sono solo sei Paesi che sono dipendenti dall’estero più di noi: Malta (importa il 98%), Lussemburgo (97%), Cipro (93%), Irlanda (85%), Belgio (80%) e Lituania (78%). Il ‘deficit’ italiano è più evidente proprio per il gas: importiamo il 90% del nostro fabbisogno per la produzione di energia elettrica, l’industria, il riscaldamento e il trasporto. E la Russia è il primo paese di provenienza, seguita dall’Algeria. “Sono due le dimensioni del problema”, ritiene Matteo Di Castelnuovo, docente di Economia dell’energia all’università Bocconi di Milano. Non solo l’alto livello di energia importata, ma anche “la dipendenza dai combustibili fossili che vanno trasportati via nave o via tubo, il che comporta una fragilità intrinseca per il rischio di incidenti come quello di ieri”.
Una fragilità che secondo il professore va contrastata in prima istanza attraverso la “decarbonizzazione”, ovvero la riduzione della dipendenza da combustibili fossili, soprattutto idrocarburi, grazie al passaggio alle fonti rinnovabili: “Le pale eoliche ce le abbiamo in casa. Il loro utilizzo va sempre più combinato con quello delle batterie, visto che il vento non soffia sempre”. Un obiettivo in ogni caso di lungo termine: “La dipendenza da idrocarburi si è costruita nell’arco di 60 anni e quindi non è che ce ne liberiamo in 24 ore”. A questo proposito la Strategia energetica nazionale (Sen) prevede l’uscita dal carbone entro il 2025: “Se per quanto riguarda questo combustibile siamo sulla strada giusta, per il gas la Sen è piuttosto conservatrice. Il problema è che deve conciliare, tra le varie cose, il modello energetico di Eni e Snam con quello di Enel”. La decarbonizzazione inoltre è un trend ormai dato per acquisito nei processi di produzione dell’energia elettrica, dove il contributo delle fonti rinnovabili è sempre più consistente, ma lo stesso non si può dire per l’industria, il riscaldamento e il trasporto, dove gli idrocarburi la fanno ancora da padroni indiscussi.
C’è poi la questione infrastrutture: se dipendiamo troppo da un gasdotto, se ne può costruire un altro che porta il gas da un altro Paese. E qui si arriva al Tap (Trans Adriatic Pipeline), la conduttura che collegherà l’Italia all’Azerbaijan e che è attualmente in costruzione in Puglia tra molte proteste. Dopo l’esplosione in Austria il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda non ha perso occasione per sottolineare quanto il governo lo consideri un’opera strategica: “Abbiamo un problema serio di fornitura – ha detto ieri il ministro -. Il Tap serve proprio a questo. Se avessimo il Tap non dovremmo dichiarare lo stato di emergenza”. Ma la sua opinione non trova particolarmente d’accordo Di Castelnuovo: “Costruire una nuova infrastruttura come il Tap comporta un trade-off su cui è la politica a dover scegliere: è vero che andiamo a diversificare le fonti di approvvigionamento dal punto di vista geografico, ma ci andiamo a vincolare ulteriormente verso una particolare fonte, ci andiamo a legare per un maggior numero di anni, perché bisogna mettere in piedi una serie piuttosto complicata di contratti con i produttori di gas e con chi poi lo andrà a consumare. Andiamo insomma a vincolare il nostro sistema ancora di più al gas, quando la direzione da intraprendere è quella della decarbonizzazione”. C’è poi un altro punto: “Con il Tap ci liberiamo in parte dalla dipendenza del gas russo, ma ci leghiamo a quello azero. Se poi c’è un’esplosione del gasdotto in Adriatico siamo al punto di prima”.
Valutazioni che non trovano d’accordo tutti gli esperti: “Non è pensabile che si possa in tempi sensati diminuire in modo importante le importazioni di combustibili”, dice per esempio Ennio Macchi, professore emerito di Energia al Politecnico di Milano. “Più infrastrutture di importazione ci sono, meglio è. Sia da un punto di vista di mercato, perché più infrastrutture consentono maggior potere contrattuale con chi esporta, sia da un punto di vista di sicurezza dell’approvvigionamento”.
Twitter @gigi_gno