di Stefano Menolascina

Conseguire al giorno d’oggi una laurea magistrale, uscire dall’ovattato mondo universitario e arrabattarsi a cercar lavoro significa imbattersi in ostacoli insormontabili e delusioni cocenti: è il destino di chi detiene una delle cosiddette “lauree deboli”, anche se ottenuta con il massimo dei voti e con la lode.

Iniziano le vane e umilianti peregrinazioni dai Centri per l’impiego alle Agenzie private di somministrazione, le lunghe attese davanti agli sportelli, gli umilianti colloqui con addetti spesso annoiati, a volte infastiditi, raramente empatici e gentili. I rituali d’ingresso si susseguono invariabilmente secondo lo stesso copione, inesorabilmente identici, monotoni, frustranti, tanto nel pubblico quanto nel privato. Nasce qualche sospetto che le domande di routine servano esclusivamente ad arricchire le banche dati.

S’inviano centinaia, se non migliaia, di curricula, corredati da opportune lettere di presentazione, ovviamente stilate ad hoc, in cui si ha l’impressione di doversi pubblicizzare come merce in vendita, ma che raramente conducono all’agognato colloquio presso un potenziale datore di lavoro. Ci si dichiara disponibili a tutto, anche a stage non retribuiti, a tirocini sotto pagati, persino a lavorare gratis. Al nulla di fatto segue la disperazione, per cui si finisce per rivolgersi ai Centri d’orientamento, o a psicologi, con il risultato di uscirne frastornati, con la consapevolezza di essere le persone sbagliate, al posto sbagliato, nel momento sbagliato.

Ci si rassegna a gravare ulteriormente sul magro bilancio familiare e ci s’imbarca in uno dei costosi master post-lauream proposti dalle varie università. Ma, poiché la situazione resta immutata, ci si auto-accusa per aver voluto assecondare le proprie inclinazioni, disobbedendo alla ferrea volontà del dio mercato, che esige informatici, ingegneri, tecnici, non certo degli umanisti. A che servono infatti coloro che possiedono una cultura, magari vasta, poliedrica e plurilinguistica? Non sono certamente utili a una società globalizzata e tecnologicamente avanzata, senza dubbio non sono le risorse necessarie ai mercati, alle aziende, alle multinazionali.

È stato un disastroso flop il tanto atteso progetto Garanzia giovani, che si sperava avrebbe risolto il problema dell’inoccupazione, o perlomeno ci avrebbe condotto all’acquisizione dell’esperienza indispensabile ad accedere al mondo del lavoro. Nella maggior parte dei casi la pluriennale iscrizione al piano non sortisce né lavoro, né esperienza, né formazione; sovente tutto si risolve in un colloquio con il personale dei Centri per l’impiego, e nella stesura di un piano d’azione individuale che non genera nessuno degli effetti auspicati.

Al fine di rendersi più appetibili agli occhi del mercato, si affrontano ulteriori esborsi, sempre alle spalle della famiglia, per colmare le lacune della propria formazione: si seguono corsi ad hoc e s’intraprendono percorsi di studio e lavoro all’estero. Al ritorno in patria, ci si scontra con le dure leggi di un mercato che non valorizza conoscenze, competenze e talenti. Le barriere innalzate dalle aziende e dagli intermediari sono insormontabili: è indispensabile risiedere nelle immediate vicinanze del luogo di lavoro – inutile dichiararsi disponibili a trasferire il proprio domicilio – è tassativo non aver superato l’età d’apprendistato, è categorico aver maturato una pluriennale esperienza specifica.

I pochi colloqui che si riescono a spuntare a volte conducono a episodi paradossali e grotteschi, se non fossero frustranti e tragici. Si può essere arruolati “in prova” per solo un giorno e, concluso il lavoro necessario, essere congedati con pochi soldi a titolo di rimborso spese, con i pretesti più astrusi, magari affermando che non c’è stato feeling con le colleghe. Si può essere criticati e messi in discussione non per questioni di skills, ma per lo standing non sufficientemente curato, o perché il paletot non ricade con un perfetto aplomb. Si può essere convocati per un colloquio, percorrere decine di chilometri e sentirsi riferire che il responsabile del personale o il titolare dell’Azienda sono indisposti, per cui l’incontro è rinviato sine die.

Anche le più estenuanti e caparbie ricerche di lavoro finiscono per essere vanificate da un sistema perverso: aziende e intermediari non attestano la ricezione del dossier di candidatura, i selezionatori dopo il colloquio o non forniscono il feedback fondamentale per migliorare le proprie performance, oppure lasciano l’aspirante lavoratore in perenne attesa di Godot, trincerandosi dietro un silenzio assordante. Se osiamo sollecitare il responso utilizzando il perentorio linguaggio giuridico, talvolta veniamo liquidati con risposte monolitiche, preconfezionate, generiche, elusive, a volte scortesi. Abbiamo l’impressione di esserci auto-lesi, poiché abbiamo osato troppo, apparendo così fastidiosi e importuni.

Ecco perché frustrati, delusi, finiamo per arrenderci, per vivere alla giornata, per sentirci ormai vecchi, sfiniti e privi di speranza a 30 anni.

Non ci è nemmeno concessa la chance di reinventarci imparando un mestiere: l’età d’apprendistato termina a 29 anni. Siamo diventati dei Neet.

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