Leggendo la proposta M5S sulla limitazione alle aperture dei negozi nei giorni festivi mi è venuto in mente quando da bambino alla domenica, dopo la messa, passavo in pasticceria a comprare i dolci. A onor del vero non mi sembrava che il pasticciere sentisse l’apertura domenicale come una vessazione, anche perché, probabilmente, in quel giorno si concentrava metà del suo fatturato settimanale. A pensarci bene, poi alla domenica era aperta anche l’edicola (almeno al mattino) e il bar dove compravo delle pesantissime bottiglie di vetro di coca cola “vuoto a rendere” e non mi pare che all’epoca nessuno si desse pena per i ferrovieri, i ristoratori o per il proprietario della sala giochi, che anzi alla domenica faceva il pienone. Il tutto ovviamente tenendo da parte quelli che lavorano nei servizi essenziali come gli ospedali, i vigili del fuoco etc. come pure gli operatori dello spettacolo o dei mass media.
Con buona pace dei pentastellati, almeno dall’abolizione della servitù della gleba, quella di lavorare nei giorni festivi è una libera scelta che, peraltro, viene tipicamente retribuita in modo maggiorato rispetto al compenso dei giorni feriali, per tenere conto del disagio derivante dall’operare mentre gli altri sono a riposo. Allora da dove nasce questa retorica di tutelare “il riposo delle famiglie” e di difendere i lavoratori maltrattati del turboliberismo imperante che ci vuole ridurre tutti a consumatori senz’anima?
Oltre all’ovvia finalità propagandistica, credo ci sia la volontà di far leva su un sentimento generale di solidarietà nei confronti di quei lavoratori che maggiormente stanno sperimentando condizioni di lavoro disagiate o in qualche modo penalizzanti in relazione a fenomeni come l’innovazione tecnologica o, più in generale alla globalizzazione (qualsiasi cosa si voglia intendere con questo termine). In questo breve post vorrei illustrare come si tratti di argomentazioni retoriche prive di fondamento e come la tendenza a regolare eccessivamente o limitare l’attività economica sia potenzialmente dannosa.
Il primo nodo da smarcare riguarda le cattive condizioni di lavoro e l’accezione da dare questo termine. Viviamo in un paese dove il lavoro nero è purtroppo una realtà diffusa e dove, soprattutto in realtà aziendali medio piccole, non è infrequente che le condizioni di sicurezza sul lavoro vengano trascurate; un paese dove lavorare inizialmente senza compenso o per somme irrisorie, nei tirocini degli studi professionali, come nelle attività artigianali e in qualche esercizio commerciale è una tragica realtà. Come possiamo affermare che le condizioni di lavoro dei supermercati che vogliono aprire alla domenica o dei siti di e-commerce applicate alla logistica e alle consegne siano peggiorative rispetto a quelli che in tanti segmenti ed aree del nostro paese sono purtroppo standard molto bassi? E’ probabilmente vero il contrario: Ikea, Carrefour o anche la perfida Ryanair non pagano le persone in nero, applicano contratti che non infrangono alcuna normativa e sono sicuramente più attenti alla sicurezza sul lavoro del negozietto di paese e della microimpresa.
E’ spiacevole che qualcuno debba lavorare alla domenica? Forse. E però sicuramente peggio vedere delle persone disposte a lavorare che rimangono disoccupate. Il riposo domenicale è un “benefit” che può permettersi chi ha un lavoro stabile, a tempo pieno e una situazione economica sufficientemente solida da non aver bisogno di lavoro extra. Se per alcune generazioni questa era la norma, oggi lo scenario è più complesso e il numero dei soggetti disponibili a lavorare nei festivi è molto più alto anche in conseguenza delle mutate condizioni in termini di occupazione e reddito pro capite soprattutto per i più giovani
Quali sono i danni potenziali derivanti dalla limitazione alle aperture nei negozi? In concreto abbastanza limitati, perché una chiusura in più o in meno in calendario non incide drasticamente sull’economia e in ogni caso la regola inutile si presta ad essere opportunamente aggirata. Il danno più importante è di carattere culturale: in un’epoca nella quale anche le organizzazioni più tradizionali si stanno aprendo allo smartworking, in un paese che cresce poco (quando cresce), ed ha livelli elevati di disoccupazione soprattutto giovanile, far passare l’idea che regolare per legge gli orari dei negozi sia una misura conveniente costituisce un pericoloso precedente. Le regole astruse che limitano in modo arbitrario l’attività economica sono una delle cause del declino del paese, aggiungerne di nuove in nome di una non meglio specificata tutela del riposo costituirebbe sicuramente un passo indietro.
Il punto di fondo da cogliere, evitando di lasciarsi abbindolare dalla retorica buonista e anacronistica, è che solo lasciando le persone libere di scegliere come e quando organizzare la propria attività economica si persegue veramente il benessere comune anche in considerazione del fatto che il lavoro disagiato che ad alcuni appare ingiusto, può costituire per altri una rilevante opportunità soprattutto se l’alternativa è non lavorare affatto.