Ryanair rischia, come nella favola di Fedro, di fare la fine della rana che scoppia per imitare il bue – a causa della recente minaccia di sanzioni per chi sciopera, poi rientrata con il riconoscimento del sindacato dei piloti. Nato 30 anni orsono nel periodo della decadenza delle grandi compagnie europee monopoliste e statali, il vettore privato irlandese è riuscito a rompere il monopolio di British airways e Aer Lingus sulla rotta Londra-Dublino, dopo una durissima battaglia legale.
Poi sempre più velocemente, è entrato nel mercato dell’Europa continentale. Gestioni fallimentari delle compagnie statali, tariffe esorbitanti per tratte domestiche e intercontinentali e offerta di voli sottodimensionata hanno tenuto il mercato del trasporto aereo in freezer. In particolare in Italia, dove il tentativo di salvataggio del vettore di Stato, l’Alitalia, si è protratto per due decenni mentre tutti gli altri vettori di bandiera, aggregandosi, privatizzando o cedendo la propria sovranità in una alleanza, si ristrutturavano e si rilanciavano.
Mentre in Europa, grazie alla sede di Dublino con tasse ridotte, e un impianto organizzativo innovativo, imitando il successo dell’americana South West, la riduzione dei servizi e il pagamento dei servizi a bordo, i voli in partenza senza coincidenze e quindi evitando attese di voli in ritardo, le prime prenotazioni on-line e una flotta completamente nuova e omogenea a differenza di quelle arlecchino degli stati europei che avevano costi manutentivi esorbitanti ha fatto la differenza. L’utilizzo di piccoli scali dimenticati, a ridosso delle grandi città non congestionati ed a costi inferiori, ha fatto il resto. L’assenza di relazioni industriali, visto che tutte le inefficienze manifestate dei vettori tradizionali Micheal O’Leary le volevano evitare stava in questa logica.
Si sono evitate costose relazioni industriali consociative e clientelari come quelle “tradizionali” con l’Alitalia, dove il contribuente, attraverso gli aiuti di Stato alla compagnia di bandiera, pagava condizioni normative e salariali tipiche di una corporazione piuttosto che di una categoria di lavoratori, dove il sindacato, anziché puntare sulla tutela degli addetti in base alle prestazioni, all’efficienza della spesa e alla qualità dei servizi, si è lasciato trascinare in un corporativismo che lo ha portato ad avere dei rappresentanti nel consiglio di amministrazione di Alitalia, senza nessuno scambio contrattuale misurabile.
Nei decenni passati, anche i grandi aeroporti sono stati condizionati da un forte consociativismo e da ricorrenti inefficienze, alti costi di handling e alta conflittualità. Situazione evitata da Ryanair e dalle nascenti compagnie low cost che hanno fatto rinascere la miriade di piccoli scali italiani. Nel settore del trasporto aereo si è reso palpabile il beneficio per i consumatori dell’apertura alla concorrenza: prima infra-europea e poi sui mercati domestici. Puntualità e basse tariffe contro ritardi, scarsa offerta e alte tariffe. La crescita tumultuosa però stava già tirando la corda quando lo scorso anno Ryanair ha presentato, insieme al ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, un “piano di investimenti da un miliardo di dollari”.
L’Italia è nel frattempo, diventata la più grande “gallina dalle uova d’oro” del vecchi continente con più del 35% del fatturato e più di un terzo del traffico movimentato. Decine di scali pubblici gestiti dagli enti locali e camere di commercio nati vuoti per dare prestigio agli onorevoli del territorio, che costringevano Alitalia (sussidiata dall’Iri) a fare voli in perdita per i loro viaggi settimanali in Parlamento, si sono trasformati. Ryanair essendo il maggior fruitore dei piccoli scali li ha presi di mira (Bergamo in primis), li ha colonizzati, assumendo un potere di ricatto.
Ha imposto un “prezzo” per ogni passeggero imbarcato sotto la voce di Co-marketing (dai 10 ai 20 euro a passeggero in partenza). Nel 2016 potrebbero corrispondere a 300 milioni i contributi che gli aeroporti hanno pagato per tenersi Ryanair. Stessa cosa, ma con volumi inferiori, vale per le altre compagnie low cost, EasyJet, Volotea, Vueling, ecc. Tant’è vero che siamo stati tra i primi a chiedere che tali “incentivi” avrebbero dovuto essere resi trasparenti e messi a gara tra tutti i vettori. Ed i primi a sostenere che le tasse delle operazioni aeree svolte in Italia andassero pagate in Italia e che il contratto dovevano contenere, oltre che il salario, il diritto alla malattia, l’infortunio e la maternità.
Dove non è riuscito il sindacato per anni, a causa della transnazionalità della compagnia e del successo esplosivo di passeggeri trasportati, dovevano pensarci le autorità italiane, Enac in primis. Co-marketing in cambio della graduale applicazione delle norme contrattuali base italiane. Invece no. Si è pensato che la maturità del passeggero doveva portarlo a capire che quel che si risparmia sul volo lo pagano poi i lavoratori in termini di minori tutele e retribuzioni.
Difficile pensare che a prendere coscienza sia il “mercato” su un tema che dovrebbe trovare soluzione a livello di regolazione pubblica e di negoziazione sindacale. Anche perché il mercato, grazie ai volatori di Ryanair, lascia nelle casse del Fondo aeroportuale, attraverso le tasse d’imbarco, 2,5 euro a volo per alimentare la cassa integrazione dorata soprattutto dei naviganti (piloti e assistenti di volo di Alitalia). La crisi di crescita del fenomeno di Ryanair sta arrivando al capolinea. Non basteranno gli ultimi trucchetti di O’Leary per dividere i sindacati avviando le trattative solo con i piloti, escludendo gli assistenti di volo il segmento più debole e bisognoso di maggiori tutele.