Sarà perché quando si parla di statistiche mi viene sempre in mente, per vicinanza geografica e perché sono righe intrise di genio, il sonetto di Trilussa: dove, per matematica, al povero tocca un pollo all’anno anche se in realtà non lo mangia, mentre il ricco ne ingozza due. “La media – ci ricorda il poeta – è sempre eguale, puro co’ la persona bisognosa”.

Però questa storia del consumo annuo pro capite di birra in Italia, fermo ancora intorno ai 30 litri, come certifica il rapporto di Assobirra appena uscito (trattasi comunque, a fine 2017, dei risultati aggregati dell’anno precedente) non mi convince. Ho provato così a fare due calcoli, mentre sorseggiavo una bionda chiaramente nazionale, e a vestire per il tempo di una birra i panni del campione di riferimento uscito dal report. Sono circa pari a 54 pinte in 12 mesi i 31 litri bevuti da ogni italiano: pinte “imperiali” inglesi, si intende, da 568 ml, e non i bicchierini da due sorsi e via che in patria chiamiamo “una media”.

Ora, togliamo il carburante necessario (8 pinte) per accompagnare le gioie e sciacquare via le sofferenze, tra febbraio e marzo, del Torneo delle sei nazioni; calcoliamo un forfait (10) che includa tutti gli impegni degli azzurri, le eliminazioni dai Mondiali, fasi preliminari e finali della Champions e posticipi della squadra del cuore che batte tra il giallo e il rosso; sottraiamo un minimo sindacale di vacanze estive, e un trapuntino di spiaggia strappato via dal traffico e dalla routine dove il sole batte forte e la gola è secca (6); non dimentichiamo di alzare in aria le sagome eleganti (almeno 2) dei bicchieri colmi di stout per festeggiare degnamente San Patrizio: ecco, mi rimangono appena le birre (12) per accompagnare la pizza, almeno una volta al mese, e poi diventa una lotta farmi bastare 16 pinte spalmate su 365 giorni per brindare all’amico che non vedi da una vita, alla notizia di una nuova nascita, al grumo di dolore che ogni tanto si blocca in gola, ai progetti geniali siglati all’ora dell’aperitivo e ai piccoli fallimenti del giorno dopo.

E allora mi rendo conto, mentre finisco la bottiglia, che forse sono io, in questo caso, “l’antro che ne magna due”, e che nella classifica dei consumi mi posizionerei molto più in alto, non al vertice inarrivabile occupato dai cechi con le loro pilsner bevute a secchi da 143 litri, ma magari al centro, accanto agli inglesi, che infatti, non a caso, spendono al pub circa 900 euro in un anno.

Mi immagino allora di incontrare l’altro italiano, quello che abbassa la mia media portandola in fondo alla lista dei paesi europei, e mi piacerebbe raccontargli la storia e la passione dei tanti, tantissimi produttori di casa e delle ottime birre che realizzano. Perché, e i dati ce lo confermano, il problema non è nell’offerta, che anzi non è mai stata così strutturata, variegata e di alto livello: prova ne sono i volumi di esportazione, in continua crescita da dieci anni e passati da 781mila ettolitri del 2006 ai 2,581 milioni dell’anno precedente, così come il numero dei birrifici in attività, difficilmente quantificabile con esattezza ma in trend di aumento e rafforzamento. Né possiamo imputare la colpa alla domanda, che anzi pare divenire più esigente e consapevole, come dimostra la flessione nella segmentazione del mercato dei settori mainstream e economy (rispettivamente -3,3% e -41% rispetto al 2012), a tutto vantaggio della categoria specialità, dove, tra le altre, si includono le birre artigianali stricto iure.

Basta farsi un giro per i locali e i bar delle nostre città, dove vedremo troneggiare nei frigoriferi sempre le solite bottiglie; basta scorrere le carte delle bevande nei ristoranti e incontrare le birre rigorosamente agli ultimissimi posti, noiosamente tutte uguali tra loro, mentre sono una rarità gli esercizi che suggeriscono abbinamenti tra cibo, malto e luppolo; basta passare in panoramica le terrazze degli happy hour e scontrarsi con l’ennesima tonalità di arancione nei calici, per macchiare una scorta di frizzantino anonimo, invece di offrire un prodotto del territorio da uno qualsiasi dei mille (una stima buttata lì per effetto, eppure vicina al vero) birrifici locali in attività.

Ecco, trovandomi di fronte a uno di quegli italiani che non conoscono, e non per propria colpa, la birra italiana che in molti bevono all’estero, anche in senso figurativo come dimostrano le tante campagne acquisti verso le realtà produttive di casa nostra nel solo 2017 (Ducato, Birradamare, Toccalmatto), vorrei sacrificare uno dei 31 litri che mi spettano e dividerlo con lui. Per statistica, da questa quantità ci toccherebbe il 2,3% di birra artigianale: se siamo fortunati, sarà un assaggio di Italian grape ale, la prima categoria tutta tricolore a entrare nella guida degli stili riconosciuti a livello internazionale dal Bjcp.

Perché so già cosa obietterebbe, il mio compagno di bevute per un giorno: guarda caso Italia e Francia, i due produttori di vino per eccellenza, sono in fondo alla classifica di consumo di birra. Ma uno non deve escludere l’altro, come dimostra l’equilibrio acido dato dalla fermentazione con mosto d’uva che fonda il successo delle Iga, o, guardando fuori dall’Europa, la coabitazione di successo tra eccellenze brassicole e enologiche lungo tutta la costa pacifica degli Stati Uniti.

Non lo ho ancora convinto: meglio ordinarne un’altra, così, anche per alzare la media.

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