“La Corea del Nord è come una bomba a orologeria. Tutto quel che possiamo fare è tentare di posticipare l’esplosione sperando, nel frattempo, di riuscire a disinnescarla”. A pensarlo è Shi Yinhong, professore della Renmin University nonché consulente del Consiglio di Stato, che sabato ha preso parte a una conferenza a Pechino sulla crisi nordcoreana insieme ad altri esperti cinesi; giusto alla vigilia del sesto anniversario della morte di Kim Jong-il, padre dell’attuale leader Kim Jong-un, deceduto il 17 dicembre 2011.
Secondo Shi e colleghi, oggi il rischio di una guerra è reale come non lo era da decenni. Soprattutto considerato il “circolo vizioso di minacce” in cui sono impantanati il presidente americano Donald Trump e Kim Jong-un, sul quale la Cina non ha più controllo. È per questa ragione che secondo Wang Hongguang, ex vice comandante della regione militare di Nanchino, viviamo in “un periodo molto pericoloso e la Cina nordorientale dovrebbe mobilitare le proprie forze di difesa per far fronte a una guerra”. Stando all’esperto, il lasso di tempo più rischioso è quello che intercorre da oggi a marzo, mese in cui Washington comincerà le esercitazioni annuali con la Corea del Sud. Sempre che le operazioni non vengano rimandate come pare abbia richiesto Seul per ridurre il pericolo di nuove provocazioni nordcoreane in concomitanza con le Olimpiadi Invernali, che si terranno il prossimo febbraio a Pyeongchang, circa 80 chilometri dalla zona demilitarizzata tra Nord e Sud.
“Ciò di cui la Cina dovrebbe preoccuparsi di più è il declino della sua influenza nelle questioni strategiche legate alla penisola e il modo in cui si sta riducendo il suo status e il suo ruolo nella sicurezza dell’Asia orientale”, ha avvertito Zhu Feng, professore della Nanjing University alludendo al mancato incontro tra l’inviato cinese, recentemente in missione al Nord, e Kim Jong-un: una vera e propria “umiliazione”. Finalizzata ufficialmente a ragguagliare l’ex alleato sull’esito del 19esimo Congresso del Partito comunista cinese (18-24 ottobre), quella di Song Tao è stata la prima trasferta in due anni di un alto funzionario cinese a nord del 38esimo parallelo.
Voci di un progressivo raffreddamento dei rapporti tra Pechino e Pyongyang si rincorrono fin dalla morte del “Caro leader” e con ancora maggiore insistenza da quando il gigante asiatico ha cominciato ad applicare passivamente le sanzioni internazionali con l’intento di placare le critiche americane. “Una guerra nella penisola coreana è inammissibile”, ha affermato il presidente cinese Xi Jinping durante un recente incontro con l’omologo sudcoreano Moon Jae-in in occasione del quale è stato approvato un piano in quattro punti per raggiungere pacificamente la denuclearizzazione della penisola attraverso il dialogo. D’altronde, non è un mistero che la Cina reputi Washington corresponsabile della crisi per via del massiccio dispiegamento d’artiglieria “made in Usa” nella regione, a cui si aggiunge lo scambio di insulti personali restituiti da Trump a Kim Jong-un. La scorsa settimana l’ambasciatore nordcoreano alle Nazioni Unite ha accusato gli Stati Uniti, il Giappone e il Consiglio di Sicurezza di portare avanti “una campagna di ostilità” mirata a prevenire lo sviluppo del programma nucleare nordcoreano, impiegato da Pyongyang unicamente “con scopi difensivi” davanti alla minaccia americana.
La risposta di Ja Song-nam, rappresentante nordcoreano all’Onu, è giunta a stretto giro dall’ennesimo non troppo credibile invito al dialogo esteso da Rex Tillerson. Oltre ad aver convocato Pyongyang al tavolo dei negoziati “senza precondizioni” (posizione in seguito parzialmente ritratta), il segretario di Stato americano, infatti, ha recentemente lasciato intendere l’esistenza di un filo diretto con Pechino declinato alla pianificazione di un possibile scenario post-Kim. A dominare i colloqui segreti è la futura gestione delle armi chimiche – occultate da qualche parte al Nord – nel caso di un collasso del regime, ma anche il riposizionamento delle truppe statunitensi nell’eventualità di uno sconfinamento oltre il 38esimo parallelo. Si tratta dell’ennesimo segnale che i colloqui tra le due superpotenze si sono spinti in territori ritenuti fino a poco tempo fa offlimit. Difficilmente Pechino accetterebbe una Corea unita guidata da Seul, alleata dell’America, con armi nucleari gestite dai sudcoreani e con le basi militari Usa sul proprio territorio, che a quel punto confinerebbe direttamente con la Cina in mancanza del Nord a fungere da cuscinetto.
Nell’ultimo anno, diversi interventi pubblici di accademici affiliati a rinomati atenei d’oltre Muraglia hanno sdoganato il silenzio a cui era stata relegata la questione nordcoreana nel timore che l’intesa con Washington potesse costare una definitiva perdita di controllo sull’ultima “cortina di ferro”. Controllo che le autorità locali pensano presumibilmente sia già inesercitabile. A suonare il campanello d’allarme è la provincia del Jilin, nell’estremo nordest cinese che separa la Repubblica popolare dalla penisola coreana. Qui da giorni non si parla soltanto di misure emergenziali in caso di un conflitto nucleare, con la circolazione di fumetti esplicativi su come rimuovere le scorie radioattive da scarpe e vestiti. Secondo il New York Times, tre villaggi nella contea di Changbai e due città provinciali sarebbero addirittura state scelte per ospitare campi profughi in caso di una crisi umanitaria aldilà del confine.