Mafie

‘Ndrangheta stragista, il pentito Villani: “Ho incontrato Faccia da mostro. Omicidi dei carabinieri? Pilotati da altri”

Al processo in corso a Reggio Calabria, dove sono imputati i boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone - il collaboratore di giustizia ha parlato ruolo di Giovanni Aiello, l'ex poliziotto morto in estate a Montauro, in provincia di Catanzaro, accusato di avere avuto un ruolo sullo sfondo delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ma anche di omicidi eccellenti come quello del commissario Ninni Cassarà e dell’agente Nino D’Agostino

“Un mercenario, un killer gestito dai servizi segreti deviati insieme a Cosa nostra e alla ‘ndrangheta”. Sono le parole usate dal collaboratore di giustizia Consolato Villani per descrivere il ruolo di Giovanni Aiello, l’ex poliziotto morto in estate a Montauro, in provincia di Catanzaro, accusato di essere l’uomo soprannominato “Faccia di mostro”. In passato indagato da quattro procure diverse – Palermo, Catania, Caltanissetta e Reggio Calabria – accusato da alcuni pentiti di avere avuto un ruolo sullo sfondo delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ma anche di omicidi eccellenti come quello del commissario Ninni Cassarà e dell’agente Nino D’Agostino, il nome di Aiello è stato al centro della deposizione del pentito sentito oggi nel processo Ndrangheta stragista che si sta celebrando a Reggio Calabria davanti alla Corte d’Assise.

Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il collaboratore di giustizia ha fornito elementi che potrebbero fare luce su una delle stagioni più buie della Paese. Al centro del processo in corso a Reggio ci sono gli attentati ai carabinieri avvenuti nei primi anni Novanta, quando Consolato Villani e Giuseppe Calabrò spararono ai militari Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo (1 dicembre 1993), uccisero Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, il 18 gennaio 1994, e ferirono gravemente l’appuntato Bartolomeo Musicò e il brigadiere Salvatore Serra (1 febbraio 1994).

Per gli inquirenti, quegli agguati rientrano nelle cosiddette “stragi continentali” e i mandanti sono il boss di Cosa nostra, Giuseppe Graviano e quello di ‘ndrangheta, Rocco Santo Filippone. Oggi sul banco degli imputati, il primo è stato un fedelissimo di Totò Riina mentre il secondo è il capo mandamento della zona tirrenica e legato alla cosca Piromalli. Sono loro i rappresentanti di Cosa Nostra e ‘ndrangheta che, stando all’impianto accusatorio, hanno stretto un accordo in base al quale gli attentati ai carabinieri rientravano “in una strategia di attacco allo Stato”. È stato lo stesso Villani – ha spiegato oggi in aula – a rivendicare l’omicidio con la sigla “Falange Armata”. Su richiesta di Giuseppe Calabrò, l’altro killer e nipote di Rocco Filippone, infatti, telefonò a una caserma dei carabinieri “da una cabina del rione Modena di Reggio. Mi disse che dovevamo fare una minaccia per far capire che era un atto terroristico contro lo Stato. Calabrò mi fece andare anche al funerale dei due carabinieri che si tenne al Duomo. Mi ricordo che c’era stata una manifestazione contro la ‘ndrangheta”.

Prima di andare ai funerali, Villani e il suo complice andarono addirittura a vegliare le due vittime in obitorio: “Siamo andati agli Ospedali Riuniti, alla camera mortuaria. Siamo entrati dentro l’obitorio dove c’erano i due corpi. Uno aveva il capo coperto e l’altro no. Siamo stati lì per un po’ e poi ce ne siamo andati”. Un altro mistero è quello del plico: “Per il terzo attentato, Calabrò mi disse che dovevamo colpire una pattuglia che transitava da Melito Porto Salvo con a bordo un plico di documenti importanti”. Villani non è riuscito a spiegare cos’erano quei documenti e chi aveva fornito al suo complice le indicazioni su quella particolare gazzella crivellata di colpi: “Grazie a Dio i carabinieri si sono salvati”.

Ma è la seconda parte dell’udienza che ha fornito gli spunti più interessanti sul rapporto tra la mafia e pezzi deviati dello Stato. Per quasi 5 ore, infatti, il procuratore Lombardo non ha dato tregua al collaboratore di giustizia. Soprattutto sul ruolo che “i mercenari” potrebbero avere avuto sulla strategia stragista di Cosa Nostra e delle cosche calabresi. All’epoca Villani era minorenne. Quegli omicidi gli consentirono di scalare la gerarchia della ‘ndrangheta e, di conseguenza, di sapere cosa si muoveva dietro di lui quando con Giuseppe Calabrò impugnò la mitraglietta M12 per sparare ai carabinieri. Molte spiegazioni gliele fornì Nino Logiudice, detto il “Nano”, suo boss di riferimento diventato a sua volte collaboratore di giustizia: “I mercenari hanno partecipato a livello logistico, sia per gli atti che ci sono stati in Sicilia e anche per i carabinieri. Logiudice mi parlò dei Graviano come l’ala stragista dei corleonesi”.

Villani sostiene di aver incontrato Aiello, molti anni dopo: a Reggio Calabria, all’interno di una profumeria di un affiliato dove l’ex poliziotto, accompagnato da una donna, aveva un appuntamento con i Logiudice. “Io li ho riconosciuti questi due mercenari – ha detto – Erano soggetti esperti nel maneggiare armi. Lui aveva una deformazione nella parte destra del volto, come se fosse stato morso. Erano esperti a livello di esplosioni ed esperti a livello di azioni terroristiche. Erano due killer gestiti dai servizi segreti deviati insieme a Cosa nostra e ‘ndrangheta. Il nome non lo sapevo, ma poi l’ho riconosciuto quando mi hanno fatto vedere una foto. Mi ricordo che si chiama Aiello”.

A distanza di tempo, Consolato Villani ha capito di essere stato uno strumento nelle mani di altri: “Chiedevo a Logiudice spiegazioni e lui mi disse che degli attentati non si doveva parlare perché erano una cosa troppo grande e pericolosa. Ho capito che sono stato usato. Quelle azioni erano pilotate. C’è stato qualcuno che ha organizzato e premeditato gli attentati ai carabinieri e che ci ha mandato al macello”. E a questo punto che il pentito tira in ballo forse esterne alle mafie. “Quando parlo di massoneria, – ha detto Villani– mi riferisco alla massoneria deviata che è il cervello della ‘ndrangheta. Il vero potere lo ha lo ‘ndranghestista-massone. Io non lo sono e penso non lo sia neanche Nino Logiudice”.

Lo sono, invece, Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, imputati nel maxi processo “Gotha” (nato da un’inchiesta coordinata dallo stesso Lombardo) che si sta celebrando in questi mesi e che vede sbarra la componente riservata delle cosche: “Paolo Romeo e Giorgio De Stefano – ha detto – sono massoni d’eccellenza. Sono ‘ndranghetisti riconosciuti al di sopra di altri. Favoriscono e gestiscono la ‘ndrangheta. E poi ci sono anche politici come Mimmo Crea (ex consigliere regionale già condannato nell’inchiesta “Onorata Sanità”, ndr) e l’avvocato Lorenzo Gatto. Una serie di personaggi invisibili che sono massoni-‘ndranghetisti. Si presume che lo sia anche Rocco Filippone, uno degli uomini più importanti della zona tirrenica. È lui che ha ‘cresciuto’ i Piromalli. Questo è un circuito ristretto”. È a questo circuito che ci si doveva rivolgere per “aggiustare un processo a Reggio Calabria o a livello di Cassazione”. Per farlo – conclude Villani – “si parlava di Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Quest’ultimo faceva parte della P2 di Licio Gelli. Avevano rapporti con la politica deviata. La Calabria e Reggio non funzionano perché i politici, nella maggior parte dei casi, sono dei pupazzi che devono fare quello che dicono loro. Vengono gestiti dai massoni”.