Ritirati l'emendamento del Pd che riduceva i mesi da 36 a 24 e quello del presidente della commissione lavoro che portava da 4 a 8 le mensilità minime da pagare al lavoratore se lo si lascia a casa senza giusta causa. Cgil: "L'esecutivo non mantiene gli impegni"
La durata massima dei contratti a termine resta di 36 mesi. E i datori di lavoro continueranno a poterli prorogare per cinque volte. Nulla di fatto nemmeno sull’aumento delle indennità di licenziamento. In assenza di accordo politico è stato ritirato l’emendamento a prima firma Chiara Gribaudo, responsabile lavoro del Pd, che riduceva a 24 mesi la durata massima. Mai presentata, poi, la proposta di modifica sulla riduzione a tre del numero massimo di proroghe, che il governo ha studiato nelle scorse settimane. Su indicazione del governo e del relatore alla manovra Francesco Boccia il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ha poi ritirato l’emendamento che portava da 4 a 8 le mensilità minime da pagare al lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa. “L’esecutivo sta compiendo un errore che non è di poco conto – ha detto Damiano – La prossima legislatura dovrà affrontare questo problema perché in Italia licenziare costa troppo poco ed è diventato troppo facile”.
Per quanto riguarda la durata dei contratti a tempo determinato, va detto che la modifica del decreto Poletti varato nel marzo 2014 – “antipasto” del Jobs Act – sarebbe stato poco più di un palliativo, visto che non avrebbe affrontato il problema del precariato “spinto”. Quello, sempre più diffuso, di chi lavora con contratti di pochi giorni: stando al primo rapporto congiunto di Istat, Inail, Inps, ministero e Anpal, 500mila italiani vengono impiegati come interinali e nel 33% dei casi i loro incarichi durano un solo giorno. C’è poi il lavoro a chiamata, che in molti casi ha sostituito i voucher di fatto aboliti la scorsa primavera. Non a caso i dati mostrano che questa tipologia dal 2012 era sempre meno utilizzata, ma dopo le norme sulla tracciabilità dei buoni lavoro e la loro sostituzione con i “contratti di prestazione occasionale” è tornata in auge.
Nessuna modifica, peraltro, era prevista riguardo alla possibilità di attivare il contratto a tempo determinato senza indicare la motivazione per cui l’azienda ricorre a quella tipologia di rapporto di lavoro invece che assumere un dipendente stabile: la cosiddetta “acausalità“, molto apprezzata dai datori di lavoro che in precedenza dovevano spiegare le ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive che legittimavano il termine.
Secondo la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti, comunque, la marcia indietro “è grave e conferma l’incapacità dell’Esecutivo a mantenere gli impegni”, perché “entrambi gli emendamenti, seppur di valenza limitata, provavano a mettere in discussione l’impianto complessivo del Jobs act, le cui conseguenze disastrose sono state confermate oggi dalla nota congiunta di Istat, Inail, Inps, ministero del Lavoro ed Anpal. Anche nel terzo trimestre si registra una forte crescita dei contratti a tempo determinato ed un calo dei tempi indeterminati”.