Il mondo si sta schiantando, giacché le speranze della gente si scontrano con un futuro in cui milioni di posti di lavoro saranno automatizzati”. Non sono le parole di un vecchio anarchico o di un neo-luddista, ma quelle del presidente della Banca mondiale, davanti all’assemblea plenaria di quella istituzione, lo scorso 12 ottobre. In origine, Jim Yong Kim non era un banchiere, ma medico e antropologo. E ha anche aggiunto: “Alcuni studi stimano che fino al 65% dei bambini delle scuole elementari oggi lavorerà in posti di lavoro o campi che ancora non esistono”.

Tutte cose che sappiamo, dirà il lettore più attento. E gli ottimisti guardano alla robotizzazione con più fiducia rispetto al presidente della Banca mondiale. Se i robot industriali hanno causato gravi perdite di posti di lavoro e di reddito da lavoro negli Stati Uniti, lo stesso non è accaduto in Germania, che ha molti più robot rispetto agli Usa e una occupazione manifatturiera assai più vasta. I robot non hanno avuto effetti aggregati sull’occupazione tedesca, anzi la diffusione dei robot aumenta le probabilità che i dipendenti restino a lavorare lì dove sono. L’effetto stabilizzante deriva in gran parte dagli sforzi del sindacato, ma è anche favorito da un minor numero di giovani lavoratori che intraprendono carriere manifatturiere.

Mentre i robot hanno aumentato la produttività e i profitti, senza diffondere (finora) la disoccupazione, gli automi non hanno migliorato la vita degli operai, neppure in Germania. Secondo Jens Südekum, un economista di Düsseldorf, “i robot hanno invero alimentato la disuguaglianza, perché hanno migliorato i salari delle persone altamente qualificate – come manager e scienziati, individui con istruzione universitaria, che hanno perfino guadagnato di più per via dei robot – ma il salario della maggior parte dei lavoratori con media competenza ne ha invece sofferto”.

Come la scuola e, soprattutto, l’università stanno affrontando il futuro? In sintonia con il resto dell’Occidente, l’Italia persegue tuttora un indirizzo fortemente orientato alla formazione del “capitale umano”, anziché all’educazione dei cittadini, nonostante una divaricazione tra formazione, lavoro e carriera da tempo evidente. L’impostazione rigidamente labour-oriented dell’istruzione, su cui si basa oggi il patto tra clienti (allievi) e fornitori (docenti), sarà in grado di prevedere quali saranno, quanti saranno e come saranno i nuovi lavori? La risposta potrebbe essere negativa, se prevarrà la rigidità della missione formativa, tipica dell’impresa universitaria e superiore plasmata dalle regole di mercato. Un modello che punta alla trasmissione di nozioni, metodi e protocolli. Un po’ come preparare legioni di avatar in grado di reincarnare l’abilità degli arcieri Apache, destinati a immolarsi davanti alle carabine Winchester del settimo cavalleggeri.

Nella stessa occasione, davanti all’assemblea plenaria della Banca mondiale, Jim Yong Kim aveva annunciato la pubblicazione di un rapporto interessante, che aggiornerà lo stato dell’arte in materia di ricchezza delle nazioni, fermo al periodo 1995-2005: The changing wealth of nations. Sarà una opportunità per esaminare dove si stanno dirigendo i destini individuali e i destini collettivi, giacché la remunerazione del lavoro, rapportata alla ricchezza prodotta, da molti anni sta diminuendo ovunque. Dall’inizio degli anni 80 del Novecento a oggi il Prodotto Interno Lordo (pro-capite) degli Stati Uniti è quasi quintuplicato, ma il salario minimo è solo raddoppiato, mentre il salario d’ingresso di un laureato in materie tecniche tradizionali, come l’ingegneria civile, è stato penalizzato ancora di più: meno che raddoppiato. Ed è facile intuire dove sia finito il surplus di reddito che non gratifica il lavoro.

L’approfondimento “Licenziati da un robot?” è disponibile sul numero di FqMillennium di novembre 

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