Viviamo in un periodo di vera e propria emergenza europea, anche se ben pochi sembrano accorgersene. C’è una scadenza imminente a cui la stampa e la politica italiane non dedicano alcun risalto, ma che ha invece un rilievo economico e sociale enorme. L’art. 16 del Fiscal Compact (o Patto intergovernativo di bilancio europeo) stabilisce che entro cinque anni dalla sua entrata in vigore (ovvero entro il 1° gennaio 2018), sulla base di una valutazione della sua attuazione, i 25 Paesi Europei firmatari – tra cui l’Italia – siano tenuti a fare i passi necessari per incorporarne le norme nella cornice giuridica dei Trattati Europei.

A più riprese espressioni di insofferenza nei confronti del Patto sono state manifestate da parte di politici italiani di varia estrazione; e giuristi attenti alla legislazione comunitaria hanno denunciato che il Patto sarebbe contrario agli stessi principi sanciti dai Trattati Europei, e dunque in nessun modo incorporabile in essi. Peraltro già nel 2013, su iniziativa italiana, il Financial Times aveva pubblicato il “monito degli economisti“, firmato da alcuni dei più noti economisti viventi, che descriveva l’unificazione monetaria come un esperimento destinato a implodere a meno di una profonda rivisitazione del quadro di regole, tra le quali quelle previste dal Patto.

Il dibattito italiano sull’integrazione del Fiscal Compact nei Trattati Ue è dunque relativamente sporadico rispetto all’urgenza della scadenza ormai prossima, ma al tempo stesso acceso e radicale. Non sembra sia diffusa né tantomeno consolidata un’analisi approfondita del suo effettivo funzionamento e dei risultati prodotti, che pure è necessaria per realizzare quella valutazione della sua attuazione che dovrebbe costituire la precondizione per la modifica ai fini di un’eventuale quanto inopportuna integrazione.

Non intendiamo sostituirci agli organi politici che hanno il mandato di effettuare la valutazione, ma ci preme sottolineare alcuni aspetti sui quali il Patto ci sembra semplicemente sbagliato e controproducente, e perciò stesso ingiustificato qualunque rafforzamento istituzionale.

Il primo punto è l’esigenza, più volte e da più parti richiamata già nei confronti del Trattato di Maastricht, di scorporare gli investimenti pubblici dal computo del disavanzo: una correzione che, rispetto alla finalità di assicurare la stabilità economica e la crescita dell’Unione, è assai più rilevante di quelle derivanti dal possibile allargamento del margine di deficit previsto dal Patto di stabilità e crescita. Tanto per citare qualche numero, l’incidenza degli investimenti sul Pil si è contratta tra il 2007 e il giugno 2017 di circa 2 punti percentuali nella media dell’Unione, più di 3 nell’Eurozona, quasi 5 punti in Italia, 10 in Spagna, e 17 in Grecia. Anche al di là del dibattito sull’entità dei moltiplicatori, è ormai chiaro a tutti che in una fase di crisi gli Stati nazionali hanno il dovere di sostenere, con il conforto dell’Unione Europea, l’attività dell’economia e l’occupazione con robuste misure di struttura e non solo anticicliche. Questo tipo di interventi, peraltro, va esteso fino a coprire gli investimenti pubblici in capitale umano: se non l’insieme della spesa pubblica in istruzione e ricerca, troppo vasta e articolata, almeno quella per l’industrializzazione della ricerca di base e l’occupazione di ricercatori e tecnologi.

Un secondo aspetto critico su cui è indispensabile intervenire è quello in realtà più discusso, ovvero l’obbligo di pareggio strutturale dei conti pubblici. Il principio presuppone anzitutto la regolarità e l’equivalenza in durata delle fasi positive e negative o almeno la non prevalenza delle fasi recessive, cosa che allo stato attuale dell’economia globale è tutt’altro che scontata. E richiederebbe poi modalità indiscutibili di calcolo della situazione dell’economia rispetto alla sua condizione “potenziale”. L’attuale procedura utilizzata dalla Commissione europea non risponde né all’uno né all’altro requisito, tant’è che l’Ocse stessa utilizza per il calcolo del “Pil potenziale” un computo ben differente che ad esempio, nel caso dell’Italia, porta a risultati assai più favorevoli, che il nostro governo ha sinora inutilmente illustrato alla Commissione. Insomma, ammesso e non concesso che esista, è necessaria una procedura più ragionevole e condivisa di calcolo degli eventuali sforamenti, in assenza della quale il sospetto che si sia di fronte a ingiustificate imposizioni derivate da una “teoria” economica inconsistente, e dunque errate non solo nel merito ma anche nel metodo, non può che rafforzarsi.

Anche l’obbligo per i paesi con un debito sopra il 60% del Pil di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno è discutibile. Quando venne istituito con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60% non era altro che il valore medio dei paesi aderenti all’Unione. Oggi, a fronte dei risultati di crescita non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche economiche europee, il valore medio è aumentato fino al 90%. In queste condizioni, e a fronte delle incidenze ancora maggiori che si riscontrano in Giappone e negli Stati Uniti, sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più realistici.

Infine, nell’attuale fase di significativo alleggerimento del Quantitative Easing, l’auspicabile apertura a livello sia nazionale che europeo di una discussione seria e approfondita sul Fiscal Compact deve proporsi anche una riconsiderazione della missione istituzionale della Bce, tale da prevedere oltre a quello della stabilità della moneta anche l’obiettivo della minimizzazione della disoccupazione. Si pensi a quanto più rapida e forte sarebbe stata la ripresa dell’occupazione, e a quanto prima lo stesso sistema bancario si sarebbe rafforzato perché sorretto dal mercato anziché dalla banca centrale, se uno strumento di sostegno agli investimenti come l’esile Piano Juncker fosse stato finanziato per cifre mensili pari anche a soltanto un decimo della spesa sostenuta per il QE.

La doppia crisi che ha travolto l’economia europea nell’ultimo decennio ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che è proprio la macchina europea ad aver bisogno di profonde riforme strutturali. Riforme che, come mostrano i recenti studi effettuati nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, devono puntare al netto orientamento delle politiche economiche europee e nazionali verso un modello di sviluppo trainato dai salari, dai consumi interni e da nuovi investimenti, anziché verso un modello mercantilista, problematico sotto il profilo dell’equilibrio globale quanto incapace di assicurare progresso, convergenza e coesione economica e sociale all’interno dell’Unione.

Ecco chi ha aderito all’appello

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