Cina e Russia rappresentano una sfida “al potere, all’influenza e agli interessi americani“. E’ quanto stabilisce il primo rapporto sulla strategia di sicurezza nazionale redatto dall’amministrazione Trump dopo 11 mesi di consultazioni e reso noto lunedì. Secondo il documento – che dichiaratamente trae ispirazione dall”America First” e ambisce a dare coerenza alle politiche della Casa Bianca in balia delle fluttuazioni umorali di Trump – Pechino e Mosca “sono determinate a rendere le loro economie meno libere e meno oneste, a far crescere le loro forze armate, a controllare informazioni e dati per reprimere le loro società ed espandere la loro influenza, e a tentare di erodere la sicurezza e la prosperità del nostro Paese”. Come? Attraverso lo sviluppo di “armi e capacità avanzate” in grado di minacciare “infrastrutture critiche e la nostra architettura di controllo e comando”.

“Cercheremo di costruire una grande partnership con questi e altri Paesi, ma sempre in modo da proteggere il nostro interesse nazionale”, ha affermato Donald Trump presentando il rapporto in 68 pagine. Mar cinese meridionale, diritti di proprietà intellettuale e competizione nei paesi in via di sviluppo sono – secondo il presidente statunitense – alcune delle aree teatro di scontro tra la prima e la seconda economia mondiale. Nel dettaglio, “gli sforzi [con cui Pechino] costruisce e militarizza avamposti nel Mar cinese meridionale mettono in pericolo il libero passaggio dei commerci, minacciano la sovranità delle altre nazioni e minano la stabilità regionale”. Non a caso tanto la Cina quanto la Russia vengono definite potenze “revisioniste“, intente a sovvertire lo status quo e l’ordine internazionale, al fianco di “regimi canaglia” (Iran e Corea del Nord) e “organizzazioni terroristiche transnazionali”.

Per l’amministrazione Trump, la strategia cinese prevede l’imposizione della propria agenda politica attraverso incentivi economici e punizioni nei confronti dei paesi compiacenti od ostili. Da qui, l’appello dell’inquilino dello Studio Ovale a incrementare gli investimenti infrastrutturali statunitensi nelle nazioni emergenti (specie nell’America Latina), dove il gigante asiatico è attivo più che mai con la sua Nuova Via della Seta da 900 miliardi di dollari.

Il documento, che trae spunto dai discorsi pronunciati dal nuovo presidente americano durante le sue apparizioni in Europa, Asia e presso le Nazioni Unite, sancisce un’inversione a U rispetto al mandato di Obama, quando Pechino veniva considerato un “partner strategico” votato allo sviluppo di “relazioni tra grandi potenze”. Di più. Estende il concetto di “sicurezza nazionale” fino ad abbracciare l’ambito universitario e dell’hi-tech. A finire nel mirino, dunque, non sono solo le operazioni finanziarie dei colossi statali ma anche l’alluvione di studenti cinesi sull’altra sponda del Pacifico. In un report del dipartimento della Difesa (“China’s Technology Transfer Strategy: How Chinese Investments in Emerging Technology Enable a Strategic Competitor to Access the Crown Jewels of US Innovation”), declassificato di recente, lo shopping cinese negli States viene associato a un compromettente trasferimento di tecnologia al pari dei cyber-furti. Pare che proprio tale analisi abbia ispirato la legislazione bipartisan (il Foreign Investment Risk Review Modernisation Act) che, se approvata, inasprirà i criteri sulla base dei quali il Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS) promuove o boccia gli investimenti stranieri, specie quando diretti nella tecnologia “dual use”, ovvero con possibili scopi militari. Intanto, a gennaio dovrebbe venire annunciato l’esito di due indagini indipendenti avviate da Washington per valutare l’impatto delle importazioni di acciaio e alluminio. La Cina è ovviamente nel mirino.

Il fatto è che per anni gli Stati Uniti hanno agito presupponendo erroneamente “che l’impegno con i rivali e la loro inclusione nelle istituzioni internazionali e nel commercio globale li avrebbe trasformati in attori benevoli e partner affidabili”. La delusione americana va oltre il settore strettamente commerciale, come lascia trasparire il riferimento alle violazioni dei diritti umani, prima volta che Trump sembra interessarsi alla soppressione delle libertà oltre la Muraglia e alla minaccia ai valori americani.

Pechino non l’ha presa bene. Dopo aver tentato di mettere le mani avanti appellandosi alla natura “win- win” delle relazioni bilaterali (che valgono circa 580 miliardi di dollari), quest’oggi il ministero degli Esteri cinese ha accusato Washington di “distorcere le reali intenzioni strategiche della Cina” sfoderando una mentalità “da Guerra Fredda“. “E’ completamente egoistico mettere i propri interessi nazionali al disopra dell’interesse comune delle altre nazioni e della comunità internazionale. Tutto questo porterà a un autoisolamento“, ha tuonato l’ambasciata cinese negli Stati Uniti.

Meno categorico il quotidiano China Daily, che pur riconoscendo “l’esacerbarsi delle frizioni commerciali” ha sottolineato come nel suo discorso Trump abbia ricordato che gli interessi delle due nazioni sono “sempre più intrecciati”. Una frase sembra infatti lasciare uno spiraglio per il dialogo: “La competizione non implica sempre ostilità, né conduce inevitabilmente al conflitto”, ha affermato The Donald. D’altronde, dopo aver prospettato ritorsioni economiche in campagna elettorale, nell’ultimo anno il presidente americano è stato costretto ad accantonare i toni belligeranti nella speranza di ottenere l’appoggio di Pechino davanti alla minaccia nordcoreana. La realpolitik trumpiana è fatta anche di compromessi, ora sta alla Cina riuscire a capitalizzarne le imprevedibilità.

China Files per il Fatto

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