Luigi Di Maio, anche grazie alle sue recenti uscite surreali (europeista a giorni alterni, filo-abusivista come tira il vento), si conferma il vero “Judy Holliday, nata ieri” della Seconda Repubblica italiana, in trasmigrazione verso la Terza. Con una precisazione per i lettori più giovani: qui si parla di una attrice – la Holliday – specializzata nelle parti da bionda svampita, consacrata a icona nella storia del cinema dal film del 1950 (Born Yesterday) diretto da George Cukor; riportata in auge nel 1993 dal remake, sempre intitolato “nata ieri”, con Melanie Griffith.
Eppure ogni tanto anche il nostro “nato ieri” ne imbrocca una, facendo quasi la figura del politico esperto e smaliziato; che ha compiuto qualche passo più in là verso il disincanto; liberandosi del cronico ricorso al luogo comune furbetto, magari instillato da qualche docente Luiss, al cui sapere banalizzante è solito abbeverarsi.
Ad esempio, quando nei giorni scorsi ha dichiarato che “lo Stato è sotto ricatto”. Una piccola precisazione al riguardo: le istituzioni sono solo stanze abitate da uomini e donne che le fanno parlare e agire. Sicché – sotto ricatto (per non dire sotto minaccia) – è semmai buona parte della nostra classe politica, inquilina delle istituzioni. Di Maio compreso, che se non dice e fa quello che impongono i suoi burattinai, del resto oltremodo ondivaghi, c’è il rischio che venga rispedito a fare lo steward nello stadio San Paolo di Napoli.
Per il resto il suo detto memorabile coglie nel segno, anche se non si può dire che il fenomeno sia soltanto nostrano. Buona parte dei parlamentari repubblicani Usa sanno per certo che Donald Trump è uno squilibrato che sta arrecando danni irreparabili prima di tutto al proprio Paese; ma si guardano bene dal giungere alle estreme conseguenze di sfiduciarlo per non rischiare la mancata rielezione personale. Simmetricamente buona parte dei piddini sarà pronto ad accettare gli squittii da topolini di Cenerentola della Boschi sedicente statista, tutta senso dello Stato e neutralità in materia bancaria (specialmente etrusca), per non incorrere nelle ritorsioni renziane. Un po’ come gli assisi nell’altro lato del Parlamento, quando avallarono senza il minimo rossore gli assunti berlusconiani sulle parentele egiziane della marocchina Ruby.
Eccoci – dunque – all’ex Cavaliere, che è stato la prima causa del disastro che ha fatto crollare la diga del pudore, inaugurando spasmodicamente l’utilizzo strumentale delle code di paglia dei propri avversari, per ridurli a miti consigli. E dei propri stessi alleati per meglio tenerli a bada. Questo grazie alle esperienze in corruttele assommate come fiduciario di Craxi e anche in proprio come imprenditore piduista. Vicende che gli hanno consentito per un ventennio di tenere sulla corda con un sorrisetto ironico chi lo contrastava propugnando alti valori. Proprio quando con il gran corruttore aveva intrattenuto non limpidissimi rapporti. Ad esempio quei miglioristi PC che diedero una mano alle televisioni del Biscione per ottenere il monopolio pubblicitario nelle TV sovietiche. E come si chiamava il capo dei miglioristi? Guarda un po’: Giorgio Napolitano?
E così via. Per cui pienamente d’accordo con Judy Di Maio per quanto riguarda la necessità di una bonifica etica della politica. Senza la quale ogni iniziativa, anche la più nobile, finirà per essere sporcata fin dall’inizio. Fermo restando che la moralizzazione avrebbe bisogno di moralizzatori credibili. Non di chi risponde alle critiche con il disco rotto che ripete il refrain “gli altri sono peggio di me”.
La prima ragione di ricattabilità in politica – come si è visto – trova il proprio punto debole, su cui fare leva, nel carrierismo opportunistico di questo personale con artigli affilati, famelicità ataviche, ma con la spina dorsale di pancotto.
Il giovanotto in carriera “nato ieri” ha un dna politico diverso dai tanti giovanotti in carriera, presenti in tutto l’arco parlamentare, intenti a rottamare i fratelli maggiori per prenderne il posto?