Né per la Spagna, né per la Catalogna, né tantomeno per gli scricchiolii dei mercati che non ci frastornano più, abituati alle crisi come siamo. Non è per questo che le urne di Barcellona, oggi di nuovo al voto, dovrebbero preoccuparci. Elezioni feriali che poco incidono il futuro, ma si coniugano a un presente fatto di indagini incomplete, arringhe fuggiasche dal Belgio, indipendentisti prigionieri delle loro promesse da galera (letteralmente). Nessuna nuova nazione sarà partorita dal voto di un giovedì, prima di andare in ufficio.

Perché in fondo cosa sono gli Stati se non raggruppamenti di uomini simili; per abitudine, innanzitutto, che poi fiorisce in cultura. Stati che possono crollare o risorgere, compattarsi nello spazio di un’idea e ritrovarsi, come è accaduto per migliaia di catalani che hanno dormito e cantato e mangiato fianco a fianco nelle scuole per rivendicare un antico diritto vecchio di qualche mese. Ritrovandosi, hanno escluso qualcun altro. Altri catalani, che non la pensano come loro, altri spagnoli, con i quali fino a ieri esultavano davanti alla tv. Una cerniera che è diventata strappo a forza di manganellate; una lista di esclusi che si somma a quelli che quest’epoca di etichette ci ha abituati ad avere già tra i piedi, tra immigrati e dimenticati.

Ciò che dovrebbe preoccuparci è l’identità sempre più ristretta, l’appartenenza che si fa esclusione. A ottobre, in una manciata di giorni, abbiamo guardato alla tv la frantumazione di una generazione intera: “Io sono catalano, tu sei spagnolo” e viceversa. Una faglia che prima non c’era. La tettonica a placche applicata al genere umano.

I terremoti politici sono sobbalzi violenti ma non sono tutto il male. Peggio c’è la frattura tra le generazioni di domani. L’idea dell’indipendenza è divampata, ma più grave sarà la sedimentazione delle sue ceneri nei pensieri e nei futuri di migliaia. Polveri sottili che avvelenano. Ragazzi cresceranno fianco a fianco ma saranno diversi, inevitabilmente allontanati gli uni dagli altri da sipari separatisti. E se sei escluso, sei risentito. E se sei risentito, sei arrabbiato.

In Italia, la vigliaccheria dello ius soli per cui non c’è mai tempo è la negazione di una realtà che alimenterà nuovo rancore in chi oggi ancora non sa cosa sia. Italiani di fatto perché cresciuti in Italia. Cosa fa di me un italiano? Tutto ciò che ho vissuto. Che è tutto ciò che ha vissuto il figlio di marocchini cresciuto sullo stesso pianerottolo. Nessuno è nato italiano: se il mio stesso italico dna fosse stato partorito, educato e diventato uomo in Africa senza mai mettere piedi in Italia, magari figlio di genitori emigrati, oggi sarei italiano? Avrei nel mio patrimonio genetico la cultura italiana? O la storia che neanche conosco?

La Penisola più conquistata del mondo, la Nazione che fino a 150 anni fa era metà austriaca e metà borbone, il Paese dei mille dialetti, il popolo dai lineamenti meticci, oggi continua a escludere dei bambini per mantenere la propria identità. Il concetto stesso di mescolanza è la nostra identità, l’italica grandezza dell’aver preso il meglio dalle genti che ci corteggiavano o dominavano. E che ora rifiutiamo sulla pelle di figli che decidiamo di perdere. Coveranno la rabbia delle baby gang o andranno via regalando il loro futuro a qualcun altro. A forza di lasciare tutti fuori dalla porta, di referendum “sto bene da me”, l’Europa sarà un condominio di monolocali: incontri forzosi sulle scale e poi di nuovo barricati a ripeterci ciò che già ci convince, convinti che sia tutto. Nazioni come loculi.

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