“Gela, scongela, rigela, l’inverno sarà ancora lungo”. Là nella casa “dal tetto azzurro” avremmo voluto esserci. Prima o poi, prima che tutto si scongeli sul serio, vorremmo almeno tornarci. Non più solo letterariamente, ma fisicamente. Là in quella casa al confine del bosco dove per quattro mesi l’anno nevica a dirotto senza mai sciogliersi alcunché. Là dove un orso ubriaco ti si infila in giardino e non viene ucciso come Daniza o KJ2, ma dove gli agenti lo invitano a svegliarsi con i cani mugolanti attorno, fino a quando desistono e dicono di stare semplicemente attenti. Un angolo di mondo gelato c’è ancora. Non così impossibile da raggiungere. Semmai una volta che ci si arriva meglio attrezzarsi per sopravvivere senza paura. Lo spiega bene il filosofo Roberto Casati, in un curioso, puntiglioso e affascinante libro da lui scritto, ed edito da Einaudi, che apri e sfogli in attesa del dispiegarsi romanzesco. Quando poi invece scopri essere qualcos’altro di ancor più stimolante: il racconto di una gelida quotidianità ritmata da fotografie dell’autore e schizzi da lui disegnati, una lezione zen che dondola tra la fiaba e la scientificità oggettiva, un istintivo raccogliere tracce di sé di fronte all’ignoto e imbiancato spazio profondo.
Il tempo di un anno accademico da consumare nel college di Hanover (New Hampshire), costa Est degli Stati Uniti, tra Vermont e Maine. Niente picchi alpini. Basta la placida esposizione di medio basse montagne ai gelidi venti del Nord, e il tempo si ferma. La neve scende copiosa da novembre fino a marzo, attutendo suoni, trasformando vite, mostrando all’uomo che è ancora possibile ripetere l’esperimento di isolamento fisico alla Henry David Thoreau anche solo a poche centinaia di metri da altri comuni mortali. Casati ha però quel piglio inesausto di colui che sente di dover imparare e conoscere, che si sorprende ancora davanti alla meraviglia, che ha un bisogno impellente di sapere come si sta dentro a quella casa/riparo, all’alba dentro l’auto, in mezzo ai campi con la neve fino al ginocchio quando il termometro cola a picco con dei sottozero a due cifre. “Voglio esplorare il freddo banale, snidarlo prima che scompaia dal nostro orizzonte, portare una testimonianza che potrà anche venir interpretata come un appello a tenercelo stretto”, scrive Casati. Ed è qui che La lezione del freddo si trasforma in un oggetto letterario rassicurante e gentile, amichevole e caldo. Al filosofo italiano in terra d’America non interessa il freddo estremo “della notte polare o dei seimila di quota”, ma il “freddo quotidiano di persone che mi assomigliano, vanno al lavoro in auto e non con una slitta trainata da cani”. Perché anzi qui, la coprotagonista, più di figlie e moglie, è proprio una cagnetta: Blacky. Un quadrupede delle meraviglie che accompagna l’autore nelle sue esplorazioni spaziali attorno a casa tra gli sfondi bianchi che si somigliano, dove l’andare senza riflettere oltre il cumulo di neve più morbido e candido potrebbe perfino riservare sinistre sorprese. E con Blacky, tra l’altro, scopriamo, che sui dieci sottozero meglio farle indossare delle scarpine antigelo. Non per vezzo estetico, ma perché altrimenti le si congelano le zampe e le si screpolano irrimediabilmente i polpastrelli. Come del resto quando le mani sono congelate, consiglia Casati novello Messner, è meglio roteare velocemente le braccia che appoggiare le dita su qualche stufa bollente.
“In un viaggio che si rispetti ti fermi”. Vero. Come altrettanto reale è il rischio cabin fever, una specie di “letargia immunodepressiva” che spinge gli esseri umani che abitano ad Hanover e nei suoi dintorni chilometrici a passare molto tempo in casa a guardare fuori dalla finestra. Come del resto la piccola Blacky tutta intenta a sdraiarsi tra stufa e muro fin quasi a cuocersi. Una quotidianità, quelle descritta da Casati, che è fatta di spalatori di neve professionisti (ma senza lo smartphone), di espedienti pratici di riscaldamento autonomo (enormi pentoloni di acqua calda sotto al letto), e di consigli su come guidare un Suv su venti centimetri di neve (senza mai sfiorare il freno) e su come lasciare le portiere aperte e le chiavi nel cruscotto (perché qualche spazzaneve prima o poi in quei quattro mesi la tua auto avrà bisogno di spostarla). La lezione del freddo così può essere goduto sì come esplorazione della resistenza attiva ad un evento atmosferico che rischia di sparire (“perché il freddo scomparirà dalla Terra”, sottolinea cupo Casati in conclusione); ma anche come rapido trattatello antropologico di naturalismo urbano, percorso di avvicinamento a una cultura altra abituata ad usanze e metodi nel rapporto con il prossimo che ci risultano alieni tanto quanto la coabitazione col freddo quotidiano. Come gli incontri con la fauna umana, in particolar modo quegli agenti di polizia che arrivano perfino a spiccare un “ammonizione” al guidatore Casati, reo di non aver acceso i fari di notte, che però dopo una giudiziosa spiegazione non viene multato ma solennemente ammonito.
La lezione del freddo mantiene infine le promesse di una narrazione classica, di uno svolgimento temporale lineare che va oltre la contemplazione della natura dietro quei vetri casalinghi ghiacciati su cui si formano per mesi strane forme solido/liquide che somigliano alle foglie di felce nel bosco. La neve si scioglie (ad aprile!), i resti lasciati fuori casa durante l’inverno riaffiorano tutti insieme in un melmoso effetto fanghiglia (chiedere a Blacky per saperne di più), e arrivato giugno i Casati tra un pranzo all’aperto e l’altro (con il maglione!) fanno spazio ai nuovi inquilini sul confine con il bosco. “Ieri è passato un orso in giardino, al limite della collina, a neanche trenta metri dal patio. Cenavamo fuori, abbiamo sentito un rumore. Ha attraversato tutta la scena da sinistra a destra, come se non ci fossimo. Forse un’orsa, piccola, tondetta. Sembrava un’apparizione, ce ne ricorderemo come un sogno”.