Qualche mese fa è uscito il rapporto annuale “Education at Glance” che descrive lo status di ricerca e istruzione nei paesi Ocse. Non è certo una novità, ma tra i dati spicca un divario notevole tra la nostra spesa in ricerca e università e quella dei paesi con cui vorremmo confrontarci. L’Italia è tra gli ultimi (solo l’1% del Pil), mentre i paesi Ue spendono in media il 40% in più, in buona parte grazie a maggiori investimenti pubblici. Come mai questi Paesi spendono così tante risorse? Potrebbe sembrare una domanda retorica, eppure la risposta non è scontata. In fondo sono soldi che producono migliaia di articoli scientifici di non ovvia utilità e ben poco di tangibile da mostrare al contribuente.
Certamente nei discorsi pubblici si sottolinea che parte di questi soldi serve a trovare il rimedio a malattie incurabili, e che la ricerca ha un valore sociale e culturale. Ma in realtà per questi Paesi le risorse per università e ricerca costituiscono un investimento a lungo termine, sono il seme per l’innovazione scientifico-tecnologica e l’aumento della produttività della propria forza lavoro. In economia è ormai un dato accettato che la crescita del Pil si costruisce spingendo i propri settori produttivi alla frontiera scientifica, cercando quell’idea innovativa che rompe con gli standard presenti e costringe il resto del mondo per qualche anno a comprare i tuoi prodotti. Esiste, cioè, la consapevolezza che le invenzioni e i brevetti che hanno cambiato il volto all’umanità non capitano a caso, ma sono il frutto degli investimenti dei decenni precedenti. Inoltre gli stessi ricercatori che il pomeriggio fanno ricerca, la mattina nelle università formano la futura forza lavoro qualificata del Paese, quella che lavorerà nelle imprese con idee nuove.
In Italia no. Di tutto questo la nostra classe dirigente non è consapevole. Sembra vedere l’università e gli enti di ricerca come un collettivo di enti di carità, a cui elemosinare qualche euro quando i fiumi di lacrime raggiungono livelli allarmanti. L’idea che il Paese che ha prodotto Fermi e Rubbia, che ha formato Adriano Olivetti, abbia concluso la propria gloriosa storia e debba ora assistere al declino economico è interiorizzata dalle nostri classi dirigenti.
Questa amara considerazione è certificata dalla situazione delle nostre università. Il crollo delle immatricolazioni ci ha consegnato la maglia nera Ue per tasso di giovani laureati (nell’Ocse superiamo solo il Messico), il tutto mentre il rapporto studenti/docenti resta tra i più alti. Inoltre l’Italia “vanta” ora la popolazione di docenti universitari più anziana d’Europa mentre, a causa dei tagli e del blocco delle assunzioni, una generazione di ottimi giovani ricercatori ogni anno in massa prende il fagotto e se ne va. Quelli che ostinatamente restano in Italia, sostenendo insegnamento e ricerca di qualità, sono oltre 20.000. Con contratti rinnovati di anno in anno, con stipendi bassi e discontinui. Ogni ricercatore costretto ad andare all’estero o cambiare carriera è una luce che si spegne nel futuro del nostro Paese. Così muore l’Italia.
Non è difficile cambiare rotta: basta investire risorse pubbliche per l’assunzione di giovani ricercatori. Servono 20.000 assunzioni, attraverso concorsi pubblici competitivi. Con un costo minimo per lo Stato non solo si darebbe una boccata d’ossigeno all’Università, restituendole il maltolto, ma potremmo finalmente riavviare il motore dell’economia italiana, da troppi anni inchiodata all’ultimo posto in Europa per produttività. Non una spesa, quindi, ma un investimento nel futuro.
Ma se è così utile, semplice ed economico perché non lo si fa? La risposta a questa domanda ingenua sta nella mancanza di visione del futuro della nostra classe politica che, incapace di guardare oltre le scadenze elettorali, preferisce dirottare le risorse a gruppi di interesse con maggiore visibilità, per ritorni di consenso a breve termine. I ricercatori italiani non costituiscono un bacino elettorale significativo e sono abituati troppo spesso a lavorare in silenzio. Eppure oggi spetta loro un compito cruciale: qui non si tratta più solo di presentare le proprie legittime istanze. È ora che i giovani ricercatori si assumano la responsabilità di rappresentare l’interesse che tutti sembrano aver dimenticato: l’interesse del paese.
Mobilitarsi per il futuro. We will not go quietly into the night.