Come in un gioco dell’oca, la crisi catalana è pronta a riesplodere. A due mesi dalla proclamazione della “Repubblica“, la regione ribelle ha scelto di nuovo una maggioranza indipendentista nel Parlament di Barcellona. Per giunta con un’affluenza molto alta, dell’82 per cento. In termini percentuali e in voti effettivi le preferenze raccolte dalle tre liste che sostengono il distacco da Madrid non sono la maggioranza, ma per il meccanismo elettorale permettono a Junts per Catalunya del governatore decaduto Carles Puigdemont in esilio a Bruxelles, la Sinistra Repubblicana del detenuto politico Oriol Junqueras (ex vicepresidente) e la Candidatura di Unità Popolare (4) di raccogliere 70 seggi, due in più della maggioranza assoluta. Da lontano Puigdemont esulta, sottolineando la “partecipazione record, storica” e un “risultato che nessuno può mettere in discussione”. Ripete, due volte: “La Repubblica catalana ha battuto la monarchia sull’articolo 155”, e aggiunge: “Rajoy è stato sconfitto“. Ora servono una “rettifica“, una “riparazione” e la “restituzione della democrazia“. “Lo Stato spagnolo ha perso” sfida. “La Repubblica catalana ha sconfitto la monarchia spagnola e il 155“, cioè l’articolo della Costituzione che ha permesso a Madrid di prendere il controllo della Catalogna, sospendendo l’autonomia. E quindi “libertà per i prigionieri politici” chiede di nuovo Puigdemont, riferendosi al suo ex vice Junqueras e ai due Jordi, Cuixart e Sanchez, responsabili di organizzazioni indipendentiste in Catalogna.
“Puigdemont-Rajoy 70 a 4!” sintetizza, euforica, cosi la segretaria di Junts Marta Pascal, prima ancora che il riconteggio tolga anche un ultimo seggio ai popolari. “Indipendenza 70-Unionisti 57!” ha aggiunto, mentre la folla gridava “Puigdemont President”. In realtà la situazione è meno chiara e meno semplice di come dicono i numeri. Il primo partito della Regione, innanzitutto, è diventato Ciudadanos, la forza liberale di centro, nata anni fa a destra in rottura con il Partito Popolare, che in questo caso è stata trascinata da una leader andalusa Inès Arrimada, che ha capitalizzato una crescita del nazionalismo che dopo il referendum si è materializzata anche in Catalogna e soprattutto insidia ora anche la guida nazionale del partito, Albert Rivera, che peraltro è barcellonese. Ciudadanos avrà 37 deputati e quindi sarà la principale forza di opposizione. “Abbiamo vinto le elezioni catalane” ha rivendicato nella notte la Arrimadas davanti ai sostenitori del partido naranja, il partito arancione, in Plaça d’Espanya, che l’hanno accolta al grido “Presidenta!” e cantando “Españoles-Españoles-Españoles!”.
Di certo entrambe le risposte degli elettori – da una parte la riconsegna delle chiavi della Regione agli indipendentisti, nonostante le manganellate ai seggi e la decapitazione giudiziaria della classe dirigente dei partiti secessionisti, dall’altra la scelta per Ciudadanos – sono un messaggio ai Popolari che detengono il governo centrale ormai da 6 anni e hanno gestito (male, generalmente) la vicenda catalana, fino all’intervento armato ai seggi della consultazione organizzata in Catalogna. Il partito del presidente del governo Mariano Rajoy è praticamente scomparso dalla Catalogna: con un misero 4 per cento avrà solo 3 seggi, il minimo storico, un disastro per quello che nel resto della Spagna è ancora il partito più votato.
E la sinistra? I socialisti riprendono un po’ di fiato, anche se in una Regione che non è mai stata così avversa alle posizioni di sinistra: il Psc condotto da Miquel Iceta raccoglie 17 parlamentari. Podemos-En Comù sostiene una terza via, per così dire, cioè è contraria all’indipendenza, ma è favorevole alla partecipazione dei cittadini. Una linea non particolarmente premiata da questa tornata elettorata (il partito di Pablo Iglesias avrà 8 seggi).
Per il potere spagnolo è una chiara disfatta. La vittoria degli indipendentisti è ancora più bruciante per Madrid in quanto è stata ottenuta in elezioni che hanno registrato un’affluenza senza precedenti, attorno all’82 per cento, che danno una ancora maggiore legittimità popolare al destituito Puigdemont. Il candidato di Rajoy in Catalogna Xavier Albiol aveva promesso di spazzare via gli indipendentisti. Nonostante le incriminazioni di tutti i suoi leader, dieci dei quali sono finiti in carcere – quattro lo sono tuttora – l’esilio in Belgio di Puigdemont e di altri 4 suoi ministri inseguiti da mandati di cattura spagnoli, il fronte della secessione ha vinto di nuovo. In voti incassa il 48 per cento contro il 43,5 ai tre partiti unionisti. Il travaso di voti registrato in Catalogna fra i due partiti unionisti di destra, Cs e Pp, a danno del partito del premier, è un segnale d’allarme per Rajoy. Potrebbe spingere proprio Rivera, giovane e ambizioso capo dei Ciudadanos, a tentare di accelerare l’uscita di scena dell’attuale premier, che da un anno governa in fragile minoranza a Madrid.
Gli scenari delle prossime settimane si fanno ora complicati. Il principale candidato alla presidenza della Catalogna, Puigdemont, si trova in Belgio. Se rimette piede in terra spagnola sarà arrestato. Il suo vicepresidente, Junqueras, capo del secondo partito indipendentista, è in carcere. Puigdemont chiede che il governo destituito venga “restituito” al paese, e che tutti i “detenuti politici” siano liberati. Altri due nuovi deputati sono in carcere a Madrid, due “in esilio” a Bruxelles. Al momento sembra molto difficile possano occupare il loro nuovo scranno in Parlamento e partecipare all’elezione del President.
La sessione costitutiva dell’assemblea catalana dovrà tenersi entro il 23 gennaio, il primo turno dell’elezione del President per il 10 febbraio. Se per aprile non sarà stato possibile eleggere il nuovo presidente scatterà lo scioglimento automatico dell’assemblea con nuove elezioni a fine maggio. E non è chiaro se Rajoy accetterà ora, come aveva promesso, di restituire alla Catalogna la sua piena autonomia politica e istituzionale. La crisi catalana è pronta a riesplodere.