Uno schiaffo, e forte. Dato con il guanto di sfida. All’Onu, gli Usa di Donald Trump ricevono una misura del loro isolamento: in Medio Oriente, resta loro solo Israele; nell’Ue, l’Ungheria e la Croazia. Fallisce il tentativo di ricatto del magnate presidente e della sua egeria Nikki Haley: “Ti taglio gli aiuti, se mi voti contro”.

Dei dieci paesi più aiutati dagli Stati Uniti, solo uno, Israele, boccia la risoluzione di condanna. E il Kenya dà forfait. Gli altri votano tutti a favore: Afghanistan, Egitto, Iraq, Giordania, Pakistan, Nigeria, Tanzania ed Etiopia, amici e financo vassalli dicono a Trump che ha sbagliato: a spostare l’ambasciata degli Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, modificando un assetto provvisorio ma stabile e condiviso; e a usare l’arma del ricatto in modo palese in una sede internazionale. Persino un sodale di Trump, l’uomo forte autoritario turco, il presidente Recep Tayyip Erdogan, esorta gli altri Paesi a “non vendersi agli Stati Uniti” e ad approvare la risoluzione.

La mossa del magnate, gratuita e non necessaria, incendia il Medio Oriente e tutto il Mondo islamico e innesca effetti a catena tutti negativi per gli Stati Uniti, a meno che la logica non sia quella vecchia (ma sempre valida per i megalomani) del “tanti nemici molto onore”: avvicinare nemici musulmani di vecchia data, come ad esempio Arabia saudita e Iran, ora dalla stessa parte della barricata pro-palestinesi; stimolare la coesione dell’Unione europea, spesso divisa in passato sul Medio Oriente – a favore della risoluzione, votano 26 dei 28, tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna, tutti e cinque i grandi.

Un altro corollario del teorema “trumpiano” è che, senza colpo ferire, Russia e Cina vedono crescere la loro influenza nella Regione: il presidente russo Vladimir Putin può permettersi di “portare a casa” le truppe dalla Siria, avendo già centrato i suoi obiettivi.

Nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, passa a larghissima maggioranza la risoluzione che condanna il riconoscimento, da parte dell’Amministrazione americana, di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata degli Usa da Tel Aviv nella Città Santa per i tre monoteismi. La condanna era stata bloccata in Consiglio di Sicurezza solo dal veto apposto dalla rappresentante permanente degli Stati Uniti, la Haley.

Il documento, presentato da Yemen e Turchia, ottiene 128 voti a favore – se ne aspettavano 150, ma qualche diplomazia s’è lasciata impressionare dalle minacce di Trump di bloccare gli aiuti- 9 contro e 35 astenuti. Una ventina di Paesi non rispondono all’appello: all’Onu, sono in tutto 193. Per contare gli amici, al magnate presidente bastano e avanzano le dita delle sue piccole mani. Per segnarsi i nemici, gli serviranno molte pagine della sua agenda 2018.

Israele minimizza il significato del voto, che “finirà nel secchio della spazzatura della storia”: si può, in effetti, prevedere che il documento resti lettera morta, come già molti altri delle Nazioni Unite, specie sul Medio Oriente – proprio Israele ne ignora il maggior numero. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sarebbe stata vincolante; una dell’Assemblea generale non lo è. E il premier israeliano Benjamin Netanyahu definisce l’Onu “la casa delle bugie”.

Il testo sottoposto all’Assemblea generale ricalca quello presentato in Consiglio di Sicurezza: chiede che tutti gli Stati rispettino le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (ben 10 dal 1967), secondo cui lo statuto finale di Gerusalemme può essere deciso solo nell’ambito di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Ogni altra decisione – si sostiene – va quindi considerata non valida.

Trump rimurgina ritorsioni contro chi l’ha abbandonato. Israele s’arrocca. I palestinesi esultano, ma sanno che il voto all’Onu non cambierà nulla. Sui Luoghi Santi, quest’anno, ci sono meno pellegrini del solito: la sacralità di Gerusalemme è stata in qualche modo profanata da un gesto arrogante, inutile, nocivo.

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