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Palestina, un popolo nella lente della letteratura

Mentre infuriano le polemiche seguite al riconoscimento del presidente americano Donald Trump di Gerusalemme quale capitale dello Stato di Israele, contro cui ieri si è espressa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è interessante ripercorrere la vita del popolo palestinese attraverso la lente privilegiata della letteratura. L’evento che più di ogni altro segna la sua storia può considerarsi senz’altro la fondazione dello Stato di Israele del 1948, avvenimento ricordato dai palestinesi come la Nakba, la catastrofe. Dopo questa data, gli scrittori palestinesi si possono idealmente dividere in due gruppi: quelli che emigrano all’estero e quelli che rimangono in Israele, divenendo cittadini arabi israeliani.

Al primo gruppo, formato dunque dagli autori palestinesi della diaspora, appartengono Giabra Ibrahim Giabra e Ghassan Kanafani. Di Giabra si ricorda il romanzo I pozzi di Betlemme (Jouvence, 1997, trad. W. Dahmash) un’opera autobiografica che raccoglie le memorie dell’infanzia e dell’adolescenza dello scrittore, emigrato in Iraq. Il libro presenta una serie di immagini di luoghi e persone di una Palestina che non esiste più, un paese in cui arabi ed ebrei vivevano insieme in pace. Lo scrittore illustra il concetto di pozzo: “La nostra vita è una sequenza di pozzi. Ne scaviamo uno a ogni nuovo inizio, convogliamo le acque raccolte dal cielo e dal cadere delle esperienze, per tornare ad esse ogni volta che la sete ci assale”. Il primo pozzo è quello dell’infanzia, in cui si sedimentano le prime esperienze, voci, desideri, gioie e dolori, da cui si può sempre attingere l’acqua pura dei ricordi ogni volta che se ha bisogno. Sulla prima parte della propria esistenza l’autore incentra il romanzo, ambientato nella natia Betlemme e a Gerusalemme, città al tempo stesso reale e fantastica.

Di Ghassan Kanafani si ricorda il capolavoro Uomini sotto il sole (Ed. Lavoro, 2016, trad. I. Camera D’Afflitto) che narra la diaspora palestinese vissuta e sofferta dai tre protagonisti, un uomo maturo, un giovane e un ragazzo. Fuggiti dai campi profughi, attraversano il deserto iracheno nel tentativo di raggiungere clandestinamente il ricco Kuwait, nella speranza di trovare lavoro. Ai posti di blocco, i tre si nascondono all’interno di un’autocisterna vuota. Il tema, tragicamente attuale, è quello del viaggio dei migranti clandestini. Pubblicato nel 1963, il romanzo, di impareggiabile bellezza, è un classico della letteratura araba. Dello stesso autore è Ritorno a Haifa (Ed. Lavoro, 2014, trad. I. Camera D’Afflitto), un’opera che racconta due diaspore, quella palestinese e quella ebraica. Dopo vent’anni di esilio, una coppia di coniugi palestinesi di Haifa torna nella città natale per rivedere, seppur fugacemente, il quartiere e la casa forzatamente abbandonata vent’anni prima, abitata ora da una famiglia ebrea reduce da Auschwitz, e per cercare il figlio, perduto durante la drammatica fuga. Lo scrittore ci guida in un viaggio che scava nella memoria, tra passato e presente, evocando una duplice tragedia resa con grande intensità emotiva.

Al secondo gruppo, formato dagli scrittori arabi israeliani, appartiene Emil Habibi, autore de Il Pessottimista. Un arabo d’Israele (Bompiani, 2002, trad. I. Camera D’Afflitto e L. Ladikoff), romanzo considerato da Vincenzo Consolo “uno dei più belli, dei più felici della letteratura araba: le avventure di un Candide nella contemporanea, tragica storia della Palestina”. Ambientata a Haifa, l’opera racconta le straordinarie avventure di Felice, un arabo nello Stato d’Israele. Come osserva I. Camera D’Afflitto, “Habibi, col suo stile sardonico, picaresco, brillante non risparmia nessuno: arabi, israeliani, progressisti, reazionari, falchi e colombe; facendo largo uso dell’allegoria non perde il gusto di dire ciò che vuole”. Criticato da molti arabi per aver accettato la condizione di arabo israeliano, Habibi rimprovera ai palestinesi della diaspora l’evocazione della patria come un paradiso perduto.

Fra gli scrittori dei “territori occupati”, si ricorda Sahar Khalifa con il romanzo La porta della piazza (Jouvence, 1994, trad. P. Radaelli), incentrato sui temi della lotta politica e della questione femminile. Il libro è ambientato a Nablus, sullo sfondo della prima Intifada. Assediato dall’esercito israeliano, il quartiere sembra abitato soltanto da donne, perché gli uomini vivono in clandestinità, muovendosi furtivi nei vicoli bui. Anche se le donne sembrano padrone del quartiere, gli uomini, pur invisibili, continuano a dominare. In questo romanzo, l’autrice racconta l’Intifada ma anche il maschilismo della società palestinese.

Sulla vita nella Striscia di Gaza si segnala il romanzo dell’autrice anglo-palestinese Selma Dabbagh Fuori da Gaza (Il Sirente, 2017, trad B. Benini). Ambientato tra Gaza, Londra e il Golfo, l’opera tratteggia le vite di due fratelli nel loro tentativo di costruirsi un futuro tra l’occupazione, il fondamentalismo religioso e le divisioni delle fazioni palestinesi. L’autrice ripercorre, con forza emotiva e umorismo, le vicende più recenti del popolo palestinese.