Sei anni or sono, approssimandosi le elezioni presidenziali in Brasile, un giornalista chiese a Luiz Inácio Lula Da Silva – che stava allora per terminare il suo secondo mandato presidenziale (e che, stando alla Costituzione, non poteva ripresentarsi) – se mai avesse pensato di cambiare la Carta Magna per prolungare la sua permanenza in quel di Palacio do Planalto. Ed assai drastica era stata la risposta di quello che – dall’alto di indici di popolarità superiori all’80 per cento – era allora di gran lunga il più amato leader politico dell’America Latina. “Soltanto un dictadorzuelo (un dittatorello n.d.r.) – rispose – può desiderare di restare presidente per più di otto anni”.
Qualcuno credette allora di scorgere, in quelle parole, una velata ma piuttosto velenosa frecciatina in direzione di Hugo Chávez, il presidente venezuelano che con più tracotante chiarezza s’era, in quegli anni, arrabattato per garantire a se stesso – contro la Costituzione da lui medesimo promulgata – il diritto a una perenne rielezione che, nel caso specifico, era l’indispensabile appendice del parareligioso e grottesco culto della propria “eternità”. E sebbene così probabilmente non fosse – essendo sempre stato, Lula, un fervido difensore del “dictadorzuelo” Chávez e del suo regime – quell’espressione venne correttamente interpretata, in quei giorni, come il sarcastico e arguto ripudio di un’epoca – quella dei presidenti a vita, dei caudillos e delle dittature militari – ormai definitamente sepolta dal “rinascimento democratico” che, in America Latina, aveva marcato la seconda metà degli anni 80.
Definitivamente sepolta? A giudicare dalle cronache recenti, parrebbe proprio di no. La figura tragica e al tempo stesso ridicola del dictadorzuelo – quello che nella versione del Lula di sei anni fa desiderava restare presidente oltre i limiti impostigli dalla Costituzione e dalla decenza politica – sta anzi diventando, in apparenza, una figura sempre più tristemente e “trasversalmente” presente nei panorami latinoamericani. Alcuni casi sono ormai, a loro modo, già vecchi e consolidati. Del “dittatorello” Nicolás Maduro e della sua spesso burlesca ascesa totalitaria all’ombra del culto di Hugo Chávez, già si è detto tutto. Ed appena è il caso di ricordare – per evitare problemi di digestione – un altro e particolarmente squallido “fatto compiuto”: quello del Nicaragua, dove Daniel Ortega – già leader d’una rivoluzione, la sandinista, che tante speranze di libertà aveva suscitato nei lontani anni 80 – ha finito per clonare, in coppia con la moglie Rosario Murillo, il regime dispotico-famigliare della dinastia dei Somoza (quella, per l’appunto, che l’insurrezione popolare del ’79, aveva abbattuto).
Per meglio comprendere il fenomeno, assai meglio tuttavia è partire dall’ultimo e più significativo capitolo della storia: quello, ancora aperto, dell’Honduras, dove il presidente uscente Juan Orlando Hernández, del molto conservatore Partido Nacional, ha appena fraudolentemente vinto – in un panorama marcato da giustificatissime proteste e da una violenta repressione – elezioni alle quali, Costituzione alla mano, neppure avrebbe dovuto partecipare. Il meccanismo d’ascesa del dictadorzuelo di turno – un meccanismo a due tempi – è stato, mutatis mutandis, quello di sempre. Primo tempo: comprare gli arbitri. Ovvero riempire di propri uomini la Corte Costituzionale, garantendo a se stesso – grazie a sentenze che, spesso, sfidano il ridicolo – il diritto di ripresentarsi, contro il dettato costituzionale, alle elezioni. Secondo tempo: garantire a se stesso il diritto di vincere quelle medesime elezioni, se necessario – come quasi sempre è necessario – grazie a fraudolente pratiche protette dalla complicità dei tribunali elettorali.
Juan Orlando Hernández – che, ironia della storia, fu tra i più ferventi sostenitori del golpe che, nel giugno del 2009, spodestò il presidente Juan Manuel Zelaya, accusato di cercare la rielezione via modifica costituzionale – ha seguito questa procedura alla lettera. E lo ha fatto proprio, come scritto sopra, nel nome di un “diritto”. Anzi, ancor meglio: nel nome di un “diritto umano”. Perché proprio questo – il suo “diritto umano” a ricandidarsi – è stato il motivo per il quale la Sala Costitucional della Corte Suprema de Justicia (la stessa che otto anni fa aveva ordinato la destituzione e l’esilio forzato di Zelaya) ha deciso (con due voti contro uno) di ignorare l’articolo della Costituzione che inequivocabilmente vieta la rielezione del presidente.
Una pagliacciata? Un’aberrazione? Una pagliacciata, sicuramente. Ma non un’aberrazione, perché con la medesima argomentazione – la rielezione come “diritto umano” – in altre latitudini geografiche ed in contrapposte aree politiche il molto “socialista” presidente boliviano, Evo Morales, ha ottenuto da un Tribunal constituzional molto “amico” il diritto di ripresentarsi alle prossime presidenziali. In questo caso ignorando, non soltanto il dettato d’una Costituzione (quella della Republica Plurinacional de Bolivia, che lo stesso Evo aveva a suo tempo promulgato), ma anche il risultato del referendum che Morales aveva indetto e perduto nel febbraio del 2016 per cercare la quarta elezione successiva.
Scegliete voi se ridere o piangere (io credo si possano fare le due cose senza cadere in contraddizione). Un fatto resta. Il dictadorzuelo torna – da destra e da sinistra – a dominare la scena politica in un’America Latina dove la Storia sembra, di nuovo, aver preso a camminare a ritroso. La democrazia è entrata – qui, come in tante altre parti del mondo – in una crisi profonda. E difficile è intravvedere la luce in fondo al tunnel.