Mercoledì 27 diembre, nell’inserto economico del Fatto Quotidiano in edicola, il viaggio in una delle farm di Bitcoin gestite da italiani in Bulgaria, dove l’elettricità costa meno e dove si cerca di fare concorrenza alla Cina. Un reportage per provare a capire meglio e raccontare come e dove nascono le criptomonete e come funziona il mondo che c’è dietro, tra nuovi business, aspirazione alla democrazia, monopoli che avanzano e interessi economici sempre più pressanti.
C’è la neve a Kremikovtzi, in Bulgaria, a trenta minuti dalla capitale Sofia: è la prima nevicata e, siamo a dicembre, le temperature sfiorano lo zero. Ricopre le decine di vecchi autobus abbandonati in ogni angolo che fino agli anni Novanta trasportavano gli operai nelle fabbriche in cui si lavorava il ferro. Almeno 20mila lavoratori che nel periodo del comunismo, venivano prelevati dalla periferia della città dove erano stati messi a vivere e condotti in quest’area industriale. Oggi è tutto abbandonato: si vedono le sagome delle ciminiere e delle fabbriche nella nebbia. Le insegne con le scritte in cirillico sono sbiadite, i taxi arrivano a fatica e grossi cani da guardia si aggirano in quest’area spettrale.
Un tempo qui si produceva e si facevano soldi. Poi quello che gli abitanti chiamano “il sistema capitalistico” ha reso antieconomico lavorare il ferro. “In Bulgaria non ce n’è – spiegano – e importarlo costava troppo”. Una alla volta, le fabbriche hanno chiuso, non è rimasto nulla se non un silenzio inquietante. Eppure, tra questi scheletri industriali, si producono soldi, moneta. Meglio: si produce criptomoneta. Inaspettatamente c’è una miniera d’oro nascosta. Qui ci sono alcune delle “fabbriche di Bitcoin” europee, quei luoghi dove nasce la moneta virtuale di cui tutti parlano da mesi e di cui tutti si chiedono la provenienza. Chi c’è dietro? Come nasce? Esiste davvero una “fabbrica di bitcoin”? Sì, esiste. Anzi, esistono. E, a quanto pare, non solo in Asia.