Lavorare sugli uomini e con gli uomini per prevenire o arginare la violenza sulle donne. E’ l’obiettivo degli sportelli e dei centri di ascolto per uomini maltrattanti, che rispondono alla chiamata di coloro che sono stati o potrebbero essere autori di violenza e per questo chiedono di essere aiutati. Ilfattoquotidiano.it, nell’ambito dell’inchiesta sulle molestie legate al mondo del lavoro (continuate a mandare le vostre segnalazioni a tiraccontolamia@ilfattoquotidiano.it), ha voluto andare a sentire le loro storie. In Italia i primi centri sono nati in via sperimentale una decina di anni fa, oggi se ne contano 44 a livello nazionale, ognuno dei quali mediamente ogni anno offre assistenza a una cinquantina di persone. “La violenza sulle donne è un’emergenza, loro sono le vittime e vanno aiutate, ma il problema lo hanno gli uomini, che non riescono a relazionarsi con loro – spiega Roberto Poggi, presidente del Cerchio degli Uomini di Torino, che dal 2004 con la sua associazione si propone di rendere gli uomini più consapevoli e responsabili, facendoli superare convinzioni e luoghi comuni a cui sono radicati – Per questo si deve intervenire su di loro, che sono la causa della violenza. Ma è un lavoro lungo, perché è necessario un cambiamento culturale”.

Identikit trasversale
Ma chi sono gli uomini violenti? L’identikit secondo i centri di ascolto è trasversale: sono liberi professionisti, operai, studenti, impiegati, imprenditori o disoccupati, con un livello di istruzione che può variare dalla laurea alla scuola media inferiore e un’età che va dai 20 agli oltre 60 anni. Quello che li accomuna sono le relazioni violente che hanno instaurato con le loro mogli, compagne o fidanzate. Ci sono la rabbia, la gelosia, i pedinamenti e il controllo ossessivo che può arrivare allo stalking, e ancora la violenza fisica, psicologica e verbale, lo svilimento dell’altra in ogni modo, la prepotenza, la fantasia del possesso. “Nella maggior parte dei casi non si tratta di pazienti o malati da curare, ma di persone che non riescono ad accettare i mutamenti culturali e sociali come l’emancipazione delle donne e a rapportarsi in modo paritario e sano con loro” aggiunge Poggi del Cerchio degli Uomini. Le convinzioni a cui si aggrappano questi uomini vanno dall’inferiorità della donna alla supremazia maschile all’interno della coppia, dal corteggiamento predatorio alla svalutazione della partner. “Spesso le motivazioni della violenza si basano su una concezione di disparità. – aggiunge Alessandra Frenza, co-coordinatrice del Centro di ascolto uomini maltrattanti di Ferrara – L’uomo fa fatica a relazionarsi e a concepire che la donna possa avere un’autonomia, non ha gli strumenti per farlo e per questo non riesce a controllare il suo comportamento”.

Solitamente gli uomini violenti hanno un vissuto psicologico che provoca in loro una grande difficoltà ad avere relazioni adulte con altre persone: può essere un passato in un contesto familiare in cui la violenza è considerata “normale”, un rapporto difficile con i genitori, ma in generale, spiegano gli operatori, non ci sono schemi fissi, anche se tutti, nel momento in cui chiedono aiuto, vivono una situazione di disagio, una profonda sofferenza. “Di solito sono persone con difficoltà a interagire e a identificare le proprie emozioni, e quindi anche a capire quelle della propria partner – spiega Giorgio Penuti, psicologo e psicoterapeuta dello sportello Liberiamoci dalla Violenza dell’Ausl di Modena – Nessuno di loro però ammetterebbe mai una fragilità o una difficoltà”.

“Un elemento che si può rilevare è che tutti parlano delle donne come persone incomprensibili, ne forniscono quasi una rappresentazione persecutoria. – spiega Andrea Bernetti del Centro di ascolto uomini maltrattanti di Roma – Altra caratteristica ricorrente è il fatto di essere padri. Ci sono infatti alcuni momenti dell’esistenza delle persone che fanno emergere la violenza, e uno di questi è la nascita di un figlio, perché il rapporto di coppia si altera e deve arrivare a un nuovo equilibrio”. Proprio la presenza dei minori però abbassa il livello di tolleranza verso la violenza e fa scattare la ricerca di aiuto.

Il percorso di recupero
Il primo contatto con i centri di ascolto può avvenire attraverso sportelli o numeri dedicati di Sos, poi si passa a interviste e colloqui individuali oppure al lavoro in gruppo, con la moderazione di psicologi, sociologi, psicoterapeuti e counsellor. Si lavora sull’empatia e sulle emozioni, si confrontano le esperienze e i vissuti. Di solito le persone arrivano ai centri spontaneamente, altre volte sono le donne a indirizzare i propri compagni, oppure il suggerimento arriva dalla famiglia, o ancora dagli assistenti sociali o dagli avvocati in casi di denunce o di presenza di minori. “Ma solo se poi è la persona interessata a contattarci la prendiamo in carico” chiarisce Frenza del Cam di Ferrara. Dalla motivazione dipende infatti il successo o meno del percorso, perché spesso chi si rivolge ai centri di ascolto ha la percezione di avere fatto qualcosa di grave, ma non è consapevole di avere sbagliato in prima persona. Scatta una fase di negazione, un meccanismo di difesa in cui non si riconosce o si minimizza il problema, oppure si dà la colpa della propria reazione agli altri o al contesto. “Il lavoro punta innanzitutto a far assumere agli uomini la responsabilità di quello che è avvenuto e di ciò che può avvenire – spiega Bernetti del Cam di Roma – Solo così si può passare da una situazione di vittimismo a una in cui si diventa consapevoli di aver agito con violenza, di avere scelto di farlo e si può quindi diventare responsabili di un cambiamento futuro”.

Il percorso non è facile. Solitamente la riabilitazione deve durare almeno un anno, ma può continuare anche per più tempo a seconda delle esigenze e dei risultati. Molti però abbandonano prima. “Non tutti riescono a cambiare – spiegano dal Cam di Ferrara – dipende molto dalla motivazione che hanno, ma anche da come sono. Abbiamo avuto casi di uomini che non legittimavano il ruolo di un’operatrice perché era una donna. Alcuni invece non riescono a reggere la sofferenza dello scavare nel loro profondo e nel loro agire”. Ci sono poi uomini che abbandonano il gruppo quando magari riescono a riallacciare un rapporto che si era interrotto a causa della violenza. “In questo caso però, si tratta di persone che non sono pronte – sottolinea Bernetti – perché avevano una motivazione strumentale, ma non l’obiettivo di cambiare per se stessi”.

Tanti risultati, ma non esiste una rete nazionale
Gli anni di sperimentazione hanno dimostrato che la metodologia dei centri funziona, anche se non per tutti, con risultati tangibili per oltre il 50 per cento degli uomini presi in carico. Certo non è un’assicurazione, ma una possibilità concreta di prevenzione che potrebbe garantire una diminuzione della violenza di genere, soprattutto se affiancata a campagne di sensibilizzazione e informazione nelle scuole e fra i giovanissimi. “Sarebbe importante capire i ‘bug’ di questi uomini, dall’adolescenza in poi – aggiunge Penuti del centro di Modena – Intervenire e parlare con loro nel momento in cui cominciano i rapporti di coppia, per educarli a impostare un rapporto di rispetto verso la compagna”.

A livello nazionale però non c’è ancora un sistema strutturato, ma un modello misto, così come non sono strutturali le risorse pubbliche erogate. Ci sono centri interamente pubblici finanziati tramite le regioni e le Asl, centri convenzionati con il pubblico e centri privati che devono contare su sponsor per lavorare; il servizio può essere gratuito oppure può essere chiesta una quota simbolica agli utenti, che in alcuni casi serve anche come “atto di responsabilità”. “Avere dei centri di questo livello in ambito pubblico è un’idea molto avanzata” spiega Monica Dotti, responsabile di Liberiamoci dalla Violenza, primo centro pubblico nato nel 2011 come progetto pilota presso l’Ausl di Modena in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Nella città emiliana da anni studiano il fenomeno della violenza dal punto di vista maschile in collaborazione con un gruppo internazionale che fa riferimento all’esperienza norvegese del centro di Oslo “Alternative to Violence”. “I finanziamenti che ci arrivano sono per la formazione e per la promozione, nel giro di pochi anni abbiamo aperto altri tre sportelli in Emilia Romagna e siamo in rete con altri centri europei per confrontarci. Il nostro è un impegno etico verso la collettività”.

Di recente lo Stato ha inserito i programmi di trattamento di uomini maltrattanti nel piano nazionale antiviolenza con un bando dedicato e un finanziamento ad hoc, ma sul fronte della prevenzione al maschile e di una rete capillare di servizi c’è ancora tanto da fare. Importante secondo gli operatori sarebbe “fare rete”, come già in parte sta avvenendo, con le istituzioni e i servizi sociosanitari che si occupano per esempio di dipendenze e di problemi psicologici o con gli istituti penitenziari. “Investire sui centri che lavorano sugli uomini violenti è come costruire una casa con i criteri antisismici – conclude Bernetti – invece di contare i danni dopo un terremoto, sarebbe importante puntare prima sulla prevenzione”.

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