In politica, il 2018 ci porta un partito che sa di nuovo, anzi d’antico: il P5S, Partito Cinque Stelle, già noto come “moVimento”. Quando non erano un partito, infatti, esistevano dei principi inderogabili, fra cui ricorderete tutti il celebre motto “uno vale uno“.
E’ in realtà da tempo che quel motto è stato disatteso in favore del più leninistico “qualcuno vale tutto”. Ora che tutto il potere è tornato nelle mani non già di un soviet supremo, ma di un politburo ristretto composto solo da tre nomi: Grillo, Casaleggio e per certi versi Di Maio, sappiamo con certezza che ciò che verrà dall’elezione diretta del “popolo del web” secondo il nuovo statuto (non a caso non più chiamato “non statuto” che faceva tanto il miglior Magritte) e il nuovo codice etico, dovrà passare per il vaglio del nuovo Capo Politico, appunto Di Maio, il quale avrà l’ultima parola sulla “presentazione delle liste, del simbolo e del programma e la definizione della squadra di governo” come recita l’ultimo enunciato del duce. Da notare il nuovo art. 4 che assegna all’ayatollah e al duce il potere di rigettare, se non gradito, il risultato del voto online, ora diminuito a mera “consultazione“, che è valido solo “qualora abbia partecipato la maggioranza assoluta degli iscritti”, quorum mai raggiunto prima.
René Magritte, Il tradimento delle immagini (Questa non è una pipa), 1929, Los Angeles County Museum of Art (LACMA), ©2017, Succession Magritte c/o SABAM
Niente più democrazia diretta decisoria, alla Rousseau, insomma: gli iscritti potranno sempre esprimere sempre i loro suggerimenti quando il politburo ristretto lo riterrà opportuno, ma alla fine chi decide sarà Lui, il Capo Politico, che per ora è Di Maio, ma domani potrebbe essere chiunque altro, se gli ayatollah Grillo e Casaleggio dovessero prenderlo in antipatia. Non più candidati candidi: si accettano anche gli indagati, perché c’è indagato e indagato. Non più nessuna alleanza con “nessun partito”, ma anzi: pronti ad allearsi con chiunque sia disponibile alla bisogna (Lega o LUE, pari sono).
Un primo assaggio di questo tipo di meccanismo lo si è già avuto alle scorse primarie di Genova, dove anzitutto si impose dal nulla il cosiddetto “metodo Genova“, che serviva a ridurre il potere democratico della base di candidare un iscritto chiunque con buona pace delle idee di Rousseau, al fine di incanalare la scelta su pochi nomi conosciuti al vertice. Poi, la vincitrice Marika Cassimatis fu disarcionata con l’editto genovese di Grillo, in favore del candidato sconfitto, Luca Pirondini. Come ricorderete, ci fu un ricorso della Cassimatis vinto dinanzi al Tribunale Civile di Genova, ma questo non ha impedito all’Elevato di presentare il candidato che voleva lui, Pirondini, il quale alle elezioni poi è arrivato terzo senza nemmeno ottenere il ballottaggio.
Oltre al politburo Grillo-Casaleggio-Di Maio, ci saranno il Comitato di Garanzia e il Collegio dei Probiviri, proprio come accade in ogni partito politico che si rispetti. A ben guardare, il P5S non è però un partito veramente leninista: infatti l’intera baracca risulta proprietà di due sole persone, cosa che lo avvicina più a Forza Italia: Beppe Grillo e Casaleggio Jr., il cui unico grande merito politico è di essere il figlio bio-lo-gi-co del presidente eterno Gianroberto, già fondatore della Casaleggio e “associati” che forse si dovrebbe meglio leggere “Casaleggio и партнеры“, in russo. Tutto ciò nel “meritocratico” stile politico nordcoreano della famiglia Jong, il cui Dna governa con pungo di ferro il paese dai tempi del nonno Kim Il-sung. Anche il programma politico del P5S non è definito come negli altri partiti: su molti temi le posizioni sono talmente vaghe che a seconda di chi si intervista, si ottiene una risposta e il suo contrario. Nel P5S però sono riusciti a fare di più, e anche intervistando in giorni diversi la stessa personalità si ottengono le risposte più opposte.
Prendete la posizione sull’Euro, per esempio: Di Maio il 18 dicembre 2017 in tv su La7 si è pronunciato in favore di un referendum per uscire dalla moneta unica, referendum che lui non solo auspica, ma nel quale voterebbe proprio per l’uscita: “Se dovessimo arrivare al referendum, che per me è l’extrema ratio è chiaro che io sarei per l’uscita” (e pazienza se detto referendum è anticostituzionale secondo quanto stabilito dagli artt. 75 e 80 della Costituzione); il 28 dicembre 2017, dieci giorni dopo, intervistato da questo giornale, ha chiaramente assicurato che lui non è per uscire dall’Euro: “Non mi soffermo più su questo argomento, perché dà adito solo a strumentalizzazioni. Io confido che il referendum non si debba fare, anche perché l’Europa è molto cambiata”. Lo stesso tipo di fraintesa “posizione piglia-tutto” la si può trovare parlando di uscita dalla Nato, o di quanto costerebbe il reddito di cittadinanza, o se una volta al governo il P5S toglierebbe o meno i 940€/annui che i governi del Pd hanno redistribuito a quei 11.100.000 italiani i cui redditi sono inferiori ai 26mila€ annui: qui quando erano “una mancetta elettorale” che “non hanno rilanciato l’economia” e qui quando sono diventati così utili e necessari che “non saranno toccati e anzi vogliamo proseguire con gli sgravi Irpef“.
La Costituzione della Repubblica, del resto, al P5S sta davvero stretta: l’ultima posizione assunta, quella per la reintroduzione del vincolo di mandato (come ai tempi del fascismo) e della multa da 100mila euro ai parlamentari P5S che dovessero cambiare gruppo perché in disaccordo politico con le posizioni assunte dal loro partito, lede l’art. 67, uno dei più brevi e chiari e diffusi nella sua lineare semplicità in tutte le democrazie parlamentari, che il P5S ha in uggia: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.” La genesi di questo articolo, in misura ridotta, la potete leggere qui e apprezzerete che le posizioni dei Cinquestelle di oggi furono rappresentate (ma non approvate) in Assemblea Costituente da Ruggero Grieco, vicepresidente della Commissione per il Partito Comunista Italiano. Insomma, il 2018 ci porta un po’ di leninismo postmoderno, in salsa proprietario-aziendalistica alla Berlusconi: una ricetta sicuramente prelibata per l’Italia.