La proposta è al centro del dibattito, ma sul livello effettivo della tassa che dovrebbe sostituire Irpef e Ires è buio fitto. Nonostante l'idea risalga addirittura al programma elettorale del 1994. Per l'economista Daveri, fissandola al 20% gli introiti fiscali calerebbero di 95,4 miliardi. Forza Italia sostiene che "si finanzia da sola". E come casi di successo cita Belize, Kazakhistan, Transnistria e un atollo polinesiano
Si potrebbe derubricarla alla voce guerra di cifre da campagna elettorale. Se non fosse che a non riuscire a mettersi d’accordo sono gli esponenti di un unico partito, Forza Italia. E se non fosse che tra una proposta e l’altra ballano non qualche milione di euro, ma decine di miliardi. Oggetto del contendere è una delle principali promesse elettorali del partito di Silvio Berlusconi: la flat tax. Un’aliquota unica per persone fisiche e imprese al posto di Irpef e Ires (stando ad alcune proposte sostituirebbe anche l’Iva). La proposta è al centro del dibattito in vista del voto, ma a che livello sarà fissata la tassa “tutto compreso” prospettata agli italiani non è dato sapere. Per il fondatore di FI, a seconda dei giorni, sarà “poco superiore al 20%” o “del 20-22-25%“. Il capogruppo alla Camera Renato Brunetta ostenta sicurezza: “L’obiettivo è di arrivare ad una aliquota unica, nell’arco della legislatura, tra il 15 e il 20%“. Nel frattempo il Giornale della famiglia Berlusconi contesta il conto fatto il 2 gennaio dal Sole 24 Ore sulla perdita di gettito che deriverebbe dalla svolta fiscale: “La flat tax berlusconiana ha una aliquota base del 25% e non del 20″, assicura. Per ora gli elettori devono accontentarsi delle storie di successo raccolte da FI in giro per il mondo: la flat tax al 25% funziona benissimo, per dire, in Belize e nel paradiso fiscale di Trinidad e Tobago. Mentre i contribuenti dell’arcipelago polinesiano di Tuvalu devono accontentarsi del 30 per cento.
L’idea è del 1994. Ma i calcoli sono ancora da fare – Sul valore dell’aliquota che dovrebbe sostituire i cinque scaglioni Irpef si stanno ancora “facendo i calcoli”, ha ammesso l’ex Cavaliere il 29 dicembre in un’intervista al Corriere. E dire che per farli c’è stato parecchio tempo, considerato che la prima volta che Berlusconi ha tirato fuori dal cilindro il coniglio flat tax correva l’anno 1994. Quando fu inserita nel programma elettorale di Forza Italia da Antonio Martino, allora eminenza grigia del berlusconismo sui temi economici in quanto “allievo” del premio Nobel Milton Friedman. “Ma è sempre stata ostacolata”, attaccava nel dicembre 2014 la deputata Fi Mariastella Gelmini, ex coordinatrice del partito in Lombardia, annunciando il rilancio di quella che avrebbe rappresentato una “vera e propria rampa di lancio per la ripresa della nostra economia”. Negli ultimi tre anni, però, l’idea è stata archiviata. Nel frattempo la Lega ne ha fatto uno dei propri cavalli di battaglia, nella versione super light al 15% sostenuta da Armando Siri, ex giornalista dei tg Mediaset diventato guru economico di Matteo Salvini. E nel 2017 l’idea è riemersa come un fiume carsico: perfetto antidoto, nello storytelling berlusconiano, allo Stato vampiro che “quando ci fa pagare il 50% ci sembra un furto” (da un’intervista a Mattino 5, 21 dicembre).
“Si finanzia da sola”. “No, buco da 95 miliardi” – Mancano solo i numeri. Non un dettaglio: va da sé che tra un’aliquota del 20 e una del 25% da applicare su tutti i redditi personali e gli utili aziendali ballano miliardi. Ma poco importa. “Vi sarà un sensibile vantaggio per i contribuenti. La flat tax si finanzia da sola e fa bene ai conti pubblici“, ha garantito Berlusconi a fine anno. Su entrambi i punti, i calcoli fatti da economisti indipendenti lo smentiscono. Anche se una valutazione precisa è decisamente complicata, visto che l’aliquota è un mistero. Francesco Daveri, economista che insegna alla Cattolica e alla Sda Bocconi, già nel 2014 insieme a Luca Danielli aveva però calcolato su lavoce.info il potenziale impatto della flat tax sulle entrate erariali. Ipotizzando un’aliquota al 20%, l’esenzione da imposte di tutti i redditi sotto i 13mila euro contro gli 8mila della no tax area attuale e l’azzeramento di detrazioni e altre deduzioni, il risultato era che l’imposta unica avrebbe prodotto 76,6 miliardi di gettito a valere sui redditi delle persone fisiche e 31 miliardi sugli utili societari. Totale, 107,6 miliardi. Contro i 203 miliardi di introiti fiscali lordi registrati nel 2012. Risultato: “Verrebbero a mancare 95,4 miliardi di entrate”. Il Sole 24 Ore, senza citare la fonte, il 2 gennaio 2018 ha invece quantificato l’ammanco in 30 miliardi.
“Libertà di spendere senza l’inquinamento di questioni fiscali”– Sul Giornale del 3 gennaio Francesco Forte – negli anni 80 responsabile economico del Partito socialista, poi ministro dei governi Fanfani e Craxi e oggi professore emerito a La Sapienza e docente a contratto all’Università Mediterranea di Reggio Calabria – smentisce, sostenendo che l’aliquota sarà non del 20 bensì del 25% e che in ogni caso “si otterrà l’aumento degli imponibili causato dalla moderazione delle aliquote”, il cosiddetto effetto Laffer, dal nome dell’economista che convinse l’allora candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a ridurre le imposte dirette. Si eliminerebbe infatti il presunto “disincentivo a lavorare di più” legato a aliquote Irpef troppo alte sui redditi elevati. Secondo FI, inoltre, l’aliquota unica di per sé sarebbe sufficiente per ridurre elusione ed evasione. “Coperture incerte”, commenterebbero i tecnici parlamentari. L’impressione è che gran parte del minor gettito finirebbe per essere finanziato in deficit. La proposta curata dal Gruppo parlamentare di Forza Italia alla Camera cita tra gli altri vantaggi la “riduzione delle distorsioni dovute a fenomeni di arbitraggio fiscale, riassegnando al contribuente la piena libertà di scelta sul come spendere i propri soldi, senza che questa sia inquinata da questioni fiscali“.
I “casi di successo”: dal Kazakhistan al Sud Sudan passando per i paradisi fiscali – Segue, presumibilmente a dimostrazione della bontà della proposta, un elenco di “Paesi che hanno adottato la flat tax nel mondo”. La lista consta di 38 Stati. Otto sono membri dell’Unione europea, quelli di più recente adesione: dalla Bulgaria all’Ungheria, passando per Romania e Slovacchia. Gli altri? Oltre alla Russia, ci sono paradisi fiscali come l’Isola di Jersey, quella di Guernsey, le Seychelles e Trinidad e Tobago, regimi autoritari come il Kazakistan, repubbliche ex sovietiche come Turkmenistan e Kirghizistan, gli Stati non riconosciuti della Transnistria e del Nagorno Karabakh, il Sud Sudan reduce da un devastante conflitto etnico. Non mancano l’Iraq e l’Abkhazia. Ciliegina sulla torta la nazione polinesiana di Tuvalu, 10mila abitanti disseminati su nove isolette per 26 chilometri quadrati complessivi. Lì però la flat tax è al 30%, come a Grenada: troppo per i gusti dell’uomo di Arcore.