No free marijuana. Donald Trump infrange gli stupefacenti sogni degli statunitensi – che hanno legalizzato l’uso ricreativo della cannabis in sei Stati con i referendum votati proprio nella stessa tornata che ha portato il tycoon alla Casa Bianca – con una vera guerra. Dopo che il Capodanno è partito in California con la nuova legge l’amministrazione repubblicana, secondo il Wall Street Journal, attraverso il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, annullerà la politica dell’era Obama: ovvero scoraggiare i procuratori federali a perseguire reati legati alla marijuana negli Stati che l’hanno legalizzata. Indiscrezione confermata dall’annuncio ufficiale di Sessions. La mossa, che dovrebbe essere annunciata dal dipartimento di giustizia, sarebbe una vera dichiarazione di guerra contro la liberalizzazione di questo stupefacente, di cui le leggi federali vietano la vendita, l’acquisto e il possesso. In un nuovo momento di grande difficoltà per il presidente Usa impegnato ad arginare le conseguenze delle dichiarazioni dell’ex chief strategist Steve Bannon sul Russiagate.  Gli avvocati “presidenziali” hanno scritto all’autore Michael Wolff ma anche all’editore di “Fire and fury: the Trump White House”, chiedendo di bloccarne l’imminente pubblicazione ipotizzando il reato di diffamazione.

La legge che Trump vorrebbe depotenziare o chissà demolire prevede che in California i cittadini di oltre 21 anni possono possedere un’oncia di cannabis (equivalente a 28 grammi) e coltivare a casa fino a sei piantine. Resta vietato l’uso nei luoghi pubblici ad esempio al ristorante o al cinema e al volante. La legalizzazione è accompagnata da regole e vincoli commerciali simili a quelle del mercato degli alcolici e del tabacco. Negli Usa, dove in 30 stati la cannabis è già legale per uso medico, la California è il sesto Stato a legalizzare l’uso ricreativo, reclamizzato come un prodotto di “wellness”, l’alternativa a “calorie zero” del cocktail dopo il lavoro.

Legalizzazione non significa però che la marijuana, tuttora vietata a livello federale, sia venduta dovunque. Delle oltre mille richieste di licenza pervenute solo alcune decine sono state approvate. Los Angeles, West Hollywood, San Francisco, San Diego, Oakland, Santa Cruz e San Jose sono le città che finora, come richiesto dal referendum, hanno dato luce verde, ma molti punti di vendita (compresa tutti quelli di Los Angeles) non hanno ancora il permesso. Mentre per 300 altre municipalità, incluse Riverside, Fresno, Bakersfield, Pasadena e Anaheim, tutto resta ancora come prima: la vendita è permessa solo con ricetta medica. Dove il mercato della marijuana avrà via libera, i consumatori devono essere pronti a mostrare il documento e a pagare in contanti. Restrizioni a parte, per Tony Hall, che a San Diego ha ottenuto la prima licenza di tutto lo Stato, la rivoluzione è “epocale e multigenerazionale, simile a quella che nel 1933 pose fine al bando degli alcolici”.

Così epocale che l’edizione Usa del Guardian ha aperto una rubrica, “High Time”, dedicata a aiutare i consumatori “adulti” a districarsi nella nebbia creata da mille varietà con altrettanti decantati benefici: ci sono “brand” destinate a giovani professionisti e altre ai baby boomer. Il tutto nel quadro di una economia da sette miliardi di dollari tesa a normalizzare la marjuana come una parte essenziale della vita di tutti i giorni. Della legalizzazione della cannabis e dei benifici per il business si parla da anni e già nel 2013 si era calcolato che 1,5 miliardi di dollari di introiti sarebbero quadruplicati nel 2018 e sono stati molti gli investimenti negli ultimi anni in start up e aziende. Vedremo come andrà a finire o se si tratta solo l’ultima arma di distrazione di massa del presidente. Che dopo le uscite dell’ex braccio destro teme il fiato sul collo del super procuratore Robert Mueller.

Intanto l’attorney del Colorado (la procura generale statale, ndr) ha annunciato che il suo ufficio non cambierà approccio nel proseguire i crimini legati alla marijuana. Una mossa criticata anche dai deputati degli Stati interessati, secondo cui si tratta di una interferenza negli affari interni e di una iniziativa che ignora altre priorità più pressanti, come la lotta agli oppiacei.

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