Tre libri diversissimi tra loro per contenuto e stile sono usciti da poco per il Saggiatore, testi che però hanno un denominatore comune: raccontare i luoghi simbolo dell’America, e le sue genti, attraverso un arco temporale lungo quasi ottant’anni.
New Orleans Sketches, di William Faulkner (traduzione di Cesare Salmaggi), è una raccolta di sei veloci racconti che fanno parte della prima produzione narrativa dell’autore del Mississippi. Appena giunto a New Orleans con l’intenzione di incontrare Sherwood Anderson, nel gennaio del 1925, decise di lasciare il suo incarico di ufficiale postale e di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura collaborando con il quotidiano Times-Picayune e con la rivista The Double Dealer. Ne nascono storie che portano il germe dei temi e dei simboli che si ritroveranno, arricchiti e approfonditi, nei romanzi successivi: la fede, i riti cristiani, la figura di San Francesco d’Assisi, l’ambiente rurale in contrapposizione a quello cittadino.
Sono racconti caratterizzati da una scrittura densa di pathos e di grande spessore psicologico, da periodi lunghi e sinuosi e da una cura meticolosa nella scelta dello stile e del linguaggio. Ma al contempo sono anche storie in cui l’esattezza dei dettagli, quasi giornalistica, si mischia a un magnetismo brutale ottenuto grazie a improvvisi tratteggi rapidi e a una frammentazione lessicale. Esemplare in questo senso il racconto che chiude la raccolta, Yo Ho e due buttiglie di rum, dove il razzismo atavico del secondo ufficiale di un mercantile transoceanico non viene scalfito nemmeno davanti alla morte, accidentale ma indotta, di un marinaio cinese: “L’americano o il latino finisce male e scompare, si assimila alla gente e alle condizioni verso le quali il destino lo getta, diventa, forse per sentimentalismo, indifferente alla propria nazionalità. L’inglese, invece, è sempre inglese: più in basso cade, più sfacciatamente inglese diventa”.
Il grande sogno, di Sam Shepard (traduzione di Andrea Buzzi), è la celebrazione dei grandi spazi americani, di una waste land allucinata, della ricerca, ormai vana, di una frontiera che è luogo della mente e non del corpo. Si tratta di un libro bellissimo, ritmato come un copione cinematografico, dove le contraddizioni degli Stati Uniti vengono svelate attraverso dialoghi interrotti, scene di quotidiano disagio familiare, in fattorie abbandonate, sotto cieli infiniti che lasciano giusto il tempo di sognare qualche secondo prima che la tragedia del vivere si riappropri della mente di chi sta osservando. “Sopra le ali di pollo fumanti c’è appeso un cartoncino scritto a mano che dice: la vita è quello che ti succede mentre pensi ad altro. Il cartello pieno di schizzi gira lentamente sotto i raggi arancioni delle lampade infrarossi. Una musica apocalittica in sottofondo mugola dagli altoparlanti nascosti”.
Il modo di dire addio. Conversazioni sulla musica, l’amore, la vita, di Leonard Cohen (traduzione di Camilla Pieretti, a cura di Jeff Burger; con una lettera di Francesco Bianconi; introduzione di Suzanne Vega), è una sorta di gigantesca confessione fatta dal cantautore, poeta e scrittore canadese attraverso decine di interviste rilasciate nell’arco di tutta la sua lunghissima carriera. Ne nasce un ritratto affascinante, un personalissimo e colto mondo interiore. Dalle sue prime raccolte di liriche alla breve parentesi alla Columbia University, dai viaggi in Europa, fino all’isola greca di Hydra, dove scrive due romanzi, alle esperienze musicali nel pieno folk revival del Greenwich Village, dai rapporti con Judy Collins, John Hammond, Joan Baez, alla struggente Chelsea Hotel No 2 dedicata al suo fugace rapporto con Janis Joplin, Leonard Cohen racconta il suo universo malinconico, le intuizioni che lo hanno portato a scrivere testi di canzoni e libri a testimonianza della solitudine, dell’emarginazione e degli amori perduti. Un libro soffuso e romantico, come è stato Cohen in vita.