L’accordo sul nucleare iraniano, uno degli obiettivi centrali della politica estera dell’amministrazione Obama, aveva come scopo primario la riappacificazione dell’Occidente con una nazione strategica in una regione calda ormai da diversi decenni. I vantaggi per Washington erano più politici che economici, il fracking ha infatti aperto un nuovo capitolo nello sfruttamento degli idrocarburi per le multinazionali nord americane. In altre parole, le lobby del petrolio americane non sono più così interessate a fare affari con Teheran.

Diversa è la situazione delle multinazionali energetiche europee, in particolare quelle francesi, che hanno subito visto nell’accordo l’opportunità di rientrare in un mercato perso all’indomani della rivoluzione khomeinista del 1979. E infatti così è stato. Fino a oggi, sono stati gli europei a stringere accordi commerciali vantaggiosi con l’Iran. E va detto che la penetrazione del settore petrolifero è solo uno di questi vantaggi. Per i paesi europei, l’apertura all’Iran è un’opportunità unica per investire e commerciare con un mercato “vergine” dove vivono circa 80 milioni di persone.

Per gli iraniani, l’accordo sul nucleare aveva e ha tutt’ora un grosso valore economico. Prometteva infatti di sollevare l’intera economia nazionale dal suo isolamento internazionale. E infatti, entrato in vigore all’inizio del 2016, ha subito stimolato la ripresa economica facendo salire il prodotto interno lordo del 12,5%. Anche senza gli americani, insomma, l’accordo sul nucleare ha generato quella ricchezza che si sperava producesse. A questo punto viene spontaneo chiedersi come mai allora la gente è scesa in piazza contro un governo, quello di Rouhani, che non solo ha siglato l’accordo ma e’ stato rieletto in primavera proprio per questo.

E’ bene precisare che le manifestazioni correnti non hanno nulla a che vedere con l’amministrazione americana. Che Donald Trump minacci di non rispettare le promesse del predecessore o che accusi Teheran di sponsorizzare il terrorismo nel Medio Oriente è irrilevante. In Iran si scende in piazza perché i tanto aspettati miglioramenti economici non si sono visti.

Nonostante un tasso di crescita del 12,5 per cento l’economia iraniana è in caduta libera. L’inflazione e’ ancora superiore al 10 per cento e la disoccupazione dilaga. Due problemi serissimi in una paese dove circa meta’ degli 80 milioni di abitanti ha meno di 30 anni. In alcune delle città dove si sono verificate le proteste, la disoccupazione è di molto al di sopra della media nazionale, ufficialmente l’11,7 per cento, ma de facto si aggira intorno al 22 per cento. Ancora più alta è la disoccupazione giovanile, ufficialmente il 24,4 per cento, e in alcune regioni è al di sopra del 35 per cento.

A differenza del 2009, l’ondata di proteste corrente è motivata da necessità basilari economiche. Il tipico manifestante del 2018 è più proletario e meno intellettuale di quello di dieci anni fa. Molte manifestazioni sono avvenute fuori della capitale – nelle città che tradizionalmente hanno sostenuto il regime – e sono motivate dall’indifferenza che un sistema profondamente corrotto manifesta nei confronti della propria popolazione. In molti casi la rabbia è stata alimentata dai piani del governo per tagliare i sussidi mensili a chi guadagna più di IR7m ($194) al mese e dall’aumento dei finanziamenti per alcune istituzioni religiose.

Cinquanta di queste nel 2018 si divideranno 50 milioni di dollari per promuovere la propaganda islamica. Le istituzioni influenti conservano un enorme potere economico. Tra loro ci sono imprese gestite dalle guardie rivoluzionarie e istituzioni religiose che, secondo alcuni economisti, rappresentano circa un terzo dell’economia, ma non sono soggette agli stessi livelli di tassazione e controllo.

L’aumento del Pil e i vantaggi prodotti dall’apertura ad occidente non hanno avuto alcun impatto sulla popolazione perché il bottino se lo sono spartito le élite al potere e le istituzioni che le mantengono al potere. Una situazione esplosiva da non sottovalutare. L’Iran è un paese giovane, con una forza lavoro che cresce del 2,5% all’anno, che necessita circa tre milioni di nuovi posti lavoro entro il 2020. Ma non basta, i giovani iraniani vogliono connettersi con il mondo esterno e far parte della comunità globale, sono stufi della propaganda islamica.

Sono anche stufi dei costi delle guerre per procura in Siria, in Yemen e nel resto del Medio Oriente. Assad deve tra i sei e gli otto miliardi di dollari al governo di Teheran, soldi spesi per rimanere al potere negli ultimi anni. Soldi che non ripagherà mai, soldi sottratti agli iraniani. Il pericolo più grande non è una nuova rivoluzione ma un’altra ondata repressiva, che metta a tacere nel sangue le richieste delle nuove generazioni. Una repressione guidata dalle forze più conservatrici, i nemici di Rouhani che stanno già usando la contestazione di piazza e la retorica antagonista di Trump per riprendere il potere. Se ciò avvenisse dovremmo aspettare almeno un altro decennio e una nuova generazione di giovani, ancora più proletari, arrabbiati e reclusi, per scuotere il sistema e modernizzare l’Iran.

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