Donne

Per il museo Egizio di Torino tutte le arabe sono velate

Lo chiamano audience development, ovvero sviluppo del pubblico: ci sono agenzie che lavorano per trovare idee e inventare campagne pubblicitarie allo scopo, appunto, di incrementare la visibilità dei prodotti e delle iniziative.

Lodevole che si usino queste professioni e competenze per avvicinare il pubblico alla cultura, ma ci sono dei rischi nei quali la comunicazione può incorrere, e il più grande si chiama stereotipo. Gli esempi sono numerosi: la campagna di qualche anno fa della Ue per avvicinare le giovani agli studi scientifici, usando immagini di modelle ad una sfilata che niente hanno a che fare con il sapere, o quella di Trenitalia, che offriva biglietti scontati o gratuiti alle donne ma solo se accompagnate dalla famiglia o in coppia (etero).

Con il nuovo anno spunta quella del museo Egizio di Torino, riservata, come dice la pubblicità istituzionale Fortunato chi parla arabo “ai visitatori di lingua araba. Basta mostrare un documento. Solo per te 2 x 1: due biglietti al prezzo di uno”. Al netto degli strali di leghisti e razzisti che inneggiano alla discriminazione verso la popolazione italiana, come riportato dai media, quello che disturba è la scelta del corredo iconografico: la foto che, secondo chi l’ha pensata, definisce le (presunte) caratteristiche di un arabo e di una araba.

Nell’immagine ci sono un uomo che sorride e una donna, in primo piano, anche lei sorridente e velata. Perché velata? Chi stabilisce che una donna per essere identificata come araba deve portare il velo? E soprattutto: nessuno ha spiegato alla agenzia Etnocom, responsabile della comunicazione, che (e cito fonti enciclopediche rintracciabili facilmente) “i paesi arabi non vanno confusi con l’insieme del mondo musulmano, sia perché alcuni paesi e territori arabi comprendono significative minoranze di altre religioni, sia perché solo il 25% circa dei musulmani è costituito da arabi. Ci sono numerosi paesi islamici (solo per citarne alcuni) Turchia, Iran, Afghanistan, Malesia, Indonesia che non sono arabi”.

Il solito pasticcio che perpetua la confusione identitaria mischiando provenienza geografica e religione. Per entrare gratis, come europea all’estero, in un museo che esponesse arte italiana dovrei esporre una collanina o orecchini con una croce?

“La donna velata è stata scelta perché più riconoscibile e ‘simbolica’ (sono la maggioranza)” sostiene il museo Egizio. Forse sfugge ai responsabili del polo culturale che esistono donne arabe, musulmane e persino islamiche che non portano il velo, e alcune tra loro sono personalità culturali di primo piano: la scrittrice Irshad Manji, le due imam Ani Zonneveld e Sherin Khankan, la regista Deeyah Khan. Perché definire e identificare su base religiosa milioni di donne di cultura araba e musulmana? L’approssimazione è sempre pericolosamente limitrofa con la stereotipizzazione, e questa faciloneria non si addice ad una istituzione culturale.

Peccato, perché Torino è città importante per la sperimentazione di modi nuovi, laici e creativi di offrire alternative e cambiamento sociale e culturale.