Passata la sorpresa per l’addio al Pirellone, che neanche Lucia ai monti, la domanda che tutti si fanno è perché Roberto Maroni, presidente della Lombardia, con buone chance di essere rieletto governatore, lascia la poltrona? I “motivi personali”, che non sono di salute, però non gli hanno impedito di informare in conferenza stampa che è “a disposizione”, che “ha idee, progetti”. In pubblico non avanza “pretese, né richieste” salvo puntare i piedi per un seggio sicuro in Parlarmento, con ogni probabilità al Senato, come raccontano dalle retrovie leghiste. Laggiù nella Roma che fu ladrona, dove è stato due volte apprezzato ministro dell’Interno e poi del Welfare, l’ex segretario della Lega sarà più al sicuro dalle conseguenze di una eventuale condanna nel processo che si sta svolgendo a Milano e che con molta lentezza si sta avviando alla conclusione. Il giudizio si è aperto il 30 novembre 2015 e il dibattimento è stato aperto solo 10 mesi dopo, alla requisitoria manca poco: un paio di udienze. 

Il già deputato, e chissà futuro senatore, è imputato per le ipotizzate pressioni per far ottenere contratti a due fedelissime: quell’indebita induzione che fu concussione (prima dello spacchettamento) che è punita dalla legge Severino con la sospensione immediata dalla carica di governatore. Quella stessa norma prevede anche la decadenza da parlamentare, ma solo quando la Cassazione conferma una sentenza di condanna. Proprio come è accaduto a Silvio Berlusconi che ha perso la poltrona rossa di Palazzo Madama solo tre mesi dopo il verdetto definitivo sul caso Mediaset. Fatti due conti all’uomo della ramazza del dopo Bossi e dello scandalo sui soldi pubblici usati per le spese della Family conviene salutare la Lombardia. Anche perché conclusi gli appuntamenti in aula, con le ultime audizioni dei testi della difesa (11 e forse 25 gennaio), il pm Eugenio Fusco è pronto per chiedere al Tribunale la condanna.

Il “processetto“, così lo chiamò in udienza proprio il pubblico ministero, che però si è rivelato di uno dei più lunghi della storia recente del Palazzo di giustizia milanese (con una serie di udienze saltate per il mal di schiena dell’avvocato Michele Aiello), sicuramente subirà uno stop per la campagna elettorale; basti ricordare che quando Maroni fu candidato capolista a Varese nel giugno del 2016 il Tribunale sospese e rinviò.

Quindi solo a elezioni concluse si potrà tornare in aula ad aprile e chissà che i giudici a maggio non riescano, a due anni e mezzo dalla prima udienza, a emettere la sentenza. Ma a quel punto che sia assoluzione – e dopo il verdetto per l’ex dg di Expo Malangone non lo si può certo escludere – o condanna, Maroni potrà contare sullo scudo parlamentare. Se non addirittura – se dovesse essere confermato il rumor di un ventilato ingresso a Palazzo Chigi – su una protezione di livello istituzionale.

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