Era il sogno di Giovanni Paolo II e l’obiettivo di Benedetto XVI, è la partita a cui papa Francesco sta dedicando molte energie: raggiungere un accordo tra Vaticano e Cina e normalizzare la situazione dei cattolici nell’immenso paese, che con il presidente Xi Jinping si affaccia oggi sulla scena internazionale come potenza globale. Non più – per dirla secondo la terminologia del regime – in quanto “Grande Nazione” (da guo) ma “Nazione Forte” (qiang guo).
Il confronto, iniziato seriamente nel 2007 con la “Lettera ai sacerdoti e fedeli della Chiesa cattolica di Cina”, si è fatto serrato con il pontificato di Francesco. In questi anni almeno sei volte si sono tenute riunioni bilaterali cino-vaticane, dedicate in prima linea alla questione delle nomine vescovili. La prospettiva di un accordo a tratti pare vicina, a tratti si allontana. Perché parecchi elementi contrastanti compongono il labirinto cinese. Un eccellente simposio sulla “Diplomazia di Francesco”, organizzato recentemente a Parigi dal Centro di Ricerche Internazionali della Facoltà di Scienze politiche sotto la guida di Alain Dieckhoff, Francois Mabille e Frederic Martel, ha gettato nuova luce sul rapporto tra due potenze, di cui l’una (la Cina) ha una tenacia “infinita” e l’altra (il Vaticano) la possiede “eterna”.
Tra i relatori il gesuita Benoit Vermander, docente presso l’università Fudan di Shanghai, e Pierre Morel già ambasciatore di Francia presso la Cina e la Santa Sede.
Un primo dato, sostanzialmente ignoto all’opinione pubblica internazionale, è che la gigantesca ondata di capitalistizzazione della Cina, con lo spostamento di masse enormi dalle campagne alle città, ha scosso in profondità le comunità cattoliche rurali e rimescolato gli strati cattolici urbani, che si erano trovati una nicchia nell’ “antico regime comunista” antecedente alla rivoluzione economica. Il risultato è una crisi del cattolicesimo cinese, che se nel 2005 poteva contare oltre 12 milioni di fedeli (tra Chiesa ufficiale e Chiesa clandestina) oggi sembra essere calato sotto i dieci milioni.
Anthony Lam del “Holy Spirit Center” di Hong Kong stima che tra il 1996 e il 2014 le vocazioni maschili (preti e religiosi) sono passate da 2300 a 1260. Le vocazioni femminili sono crollate da 2500 a 156. Un ruolo decisivo è giocato naturalmente anche dalla politica statale molto restrittiva nei confronti della comunità cattolica. Fatto sta che, sempre secondo Lam, se nel 2000 si registravano 134 ordinazioni sacerdotali, nel 2014 erano 78.
Il secondo elemento critico è dato dal forte accento che i leader cinesi attuali pongono sulla necessità imprescindibile di una “cinesizzazione” delle comunità religiose: cattoliche, protestanti, musulmane, che da un lato vengono riconosciute come “elemento positivo” della società, ma dall’altro devono muoversi assolutamente all’interno del quadro ideologico-politico dettato dal Partito comunista cinese. Per di più, a partire dal 1 febbraio 2018, entreranno in vigore nuovi regolamenti statali che impongono forti multe agli organizzatori di eventi religiosi “non ufficiali” e, come è stato detto al simposio, “proibiranno le donazioni alle comunità religiose, la diffusione di informazione religiosa on line, l’insegnamento ai ragazzi”.
La tradizione storica dell’Impero Cinese, è stato notato nel corso dei lavori del convegno, è quello di un “pluralismo senza tolleranza”. L’accettazione dell’esistenza, cioè, di una pluralità di fedi e confessioni ma sotto il controllo strettissimo dell’Autorità. E’ un’impostazione, che si è sostanzialmente trasferita nell’ideologia e nella prassi della Repubblica popolare cinese.
Certamente positivo è stato l’avvento di Francesco. Che non è europeo e dunque non proviene dalle nazioni colonialiste né dai paesi coinvolti nella guerra fredda. Un papa gesuita, appartenente ad un ordine con legami di stima per la Cina. Un papa del Terzo mondo, cioè la scena di politica economica su cui Pechino si sta molto impegnando.
La Cina, specie di fronte all’isolazionismo nazionalista degli Stati Uniti sotto la guida di Trump, ha scelto la strategia di presentarsi come alfiere di una globalizzazione positiva. In questo senso il dialogo con papa Francesco può diventare importante. Però troppo forte è ancora a Pechino il timore di una Chiesa, la cui capitale sia all’estero. Una Chiesa, che pur presentandosi non antagonista al regime cinese (secondo una linea che va da Wojtyla a Ratzinger, a Bergoglio), chiede tuttavia indipendenza nel proclamare i propri valori spirituali: è una autonomia che i cinesi non sanno maneggiare.
Francesco ha sollecitato a varie riprese Xi Jinping ad un incontro. Sarebbe stato possibile nel settembre del 2015, quando il Papa si recò alle Nazioni Unite a New York. Alla fine è stato il leader cinese ad arretrare.
Sia nella Chiesa che nella Cina i campi sono d’altronde divisi. In Cina i diplomatici sarebbero più disposti ad un accordo mentre la burocrazia di partito, arroccata nell’ “Associazione patriottica” del clero cinese resta refrattaria a presunte interferenze esterne (cioè vaticane). All’interno della Chiesa, invece, a una maggioranza di vescovi cinesi inclini al realismo si contrappone una parte di gerarchia convinta (vedi il cardinale Zen) che Francesco non capisca affatto il Partito comunista cinese.
Alla fine la questione trascende i tecnicismi di un possibile accordo sul meccanismo delle nomine vescovili. Padre Benoit Vermander, erede della lunga tradizione di inculturazione dei gesuiti in Cina, sottolinea l’esigenza di una “ricostruzione culturale” dei rapporti tra Cina e Chiesa cattolica. Per capirsi meglio e avere fiducia reciproca.