Matteo Renzi se ne è giustamente lamentato: “Sono terrorizzato quando Berlusconi apre bocca perché lui la spara e a noi tocca realizzarla!”. Era stato Berlusconi a promettere di cancellare l’articolo 18 ma l’impegno lo ha dovuto mantenere il Pd con il Jobs Act. Con una giustificazione falsa e una surreale. Quella falsa era che le imprese italiane non crescessero perché non potevano assumere più di 15 dipendenti, o avrebbero perso il beneficio di poterli licenziare senza un giustificato motivo. Se fosse stato vero, ci sarebbe stata una concentrazione di aziende con 15 dipendenti, tutte desiderose di espandersi ma frenate dall’impossibilità di fare nuove assunzioni. Non c’era: il 95 per cento delle aziende aveva e ha meno di 10 dipendenti. Potevano tutte aumentare di un terzo l’organico senza timore di incorrere nell’articolo 18.

La seconda motivazione, quella surreale, era che l’articolo 18 tutelava solo alcuni tra i lavoratori dipendenti: circa due terzi. E l’altro terzo, poveretti? Per rimediare a questa odiosa disparità di trattamento, il Pd ha reso tutti i lavoratori licenziabili a piacimento.

Con il Jobs Act Renzi ha abrogato l’articolo 18 – già azzoppato dalla legge Fornero – e introdotto il contratto ironicamente definito “a tutele crescenti” con il quale le tutele non sono cresciute ma diminuite rispetto al passato. Ha allargato le maglie del contratto a termine consentendo alle imprese di attivarlo per tre anni e cinque rinnovi senza dover indicare la causale e dunque in qualunque caso. L’obiettivo era quello di rilanciare il lavoro stabile e la riforma lo ha clamorosamente mancato, contribuendo a creare solo l’uno per cento dei nuovi posti di lavoro. Lo ha rilevato uno studio di Bankitalia: le altre assunzioni si devono ai 18 miliardi di sgravi regalati alle imprese. Un fiasco: il milione di posti di lavoro che aveva promesso Berlusconi e che ha  dovuto mantenere Renzi sono contratti a termine – il 95 per cento, record di sempre – e lavoratori interinali, oggi più di mezzo milione, con un contratto che dura mediamente 12 giorni. Nel 33 per cento dei casi, un giorno solo. Lavoratori poveri, senza futuro, senza mutuo, senza casa, senza pensione e che però  figurano tra i nuovi occupati perché, per venire conteggiati nel milione di posti, è sufficiente aver lavorato un’ora nella settimana precedente alla rilevazione.

Di fronte a questo sfascio, tutti si affannano a dire che bisogna cancellare il Jobs Act, compresi quelli che lo hanno votato. Ma come propongono di farlo? Eliminando il contratto a tutele crescenti in favore di un contratto stabile che faccia davvero crescere le tutele? Ripristinando l’articolo 18 e estendendolo a tutti i lavoratori? Tornando alla formulazione precedente alla modifica-Fornero, quando ai lavoratori ingiustamente licenziati spettava il reintegro e non un semplice indennizzo economico, spesso inferiore alle mensilità non corrisposte dall’azienda? Qui sta la gabola, perché solo la garanzia del reintegro in caso di licenziamento illegittimo – da subito, non dopo tre anni – costituisce un’effettiva tutela del posto di lavoro. L’indennizzo economico nella quasi totalità dei casi previsto dalla legge Fornero ha permesso alle imprese di liberarsi dei lavoratori scomodi pagando per il fastidio. Un affare per le grandi aziende, che possono agevolmente sbarazzarsi dei dipendenti più anziani, di quelli troppo cagionevoli, delle donne che rientrano dalla maternità, dei lavoratori iscritti al sindacato inviso, di quelli che si rifiutano di fare gli straordinari o lavorare durante le festività o di notte.

Per tutelare davvero i lavoratori dipendenti occorre quindi ripristinare l’articolo 18 nella sua formulazione originale, estenderlo a tutti da subito e non dopo tre anni e intervenire sul decreto-Poletti che ha permesso il proliferare dei contratti a termine al posto di quelli stabili.

La proposta di Liberi e Uguali, illustrata su incarico di Pietro Grasso da Rossella Muroni nelle linee guida del programma, è assai deludente: Grasso parla di “cancellare il Jobs Act” ma propone in realtà di mantenere le tutele crescenti previste dal Jobs Act, limitandosi a ripristinare l’articolo 18 solo dopo 3 anni di contratto. Non è una sorpresa: Possibile – una delle tre forze che compone Leu, ha sempre sponsorizzato il contratto unico a tutele crescenti immaginato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Mdp, azionista di maggioranza della lista, è composta da ex Pd che il Jobs Act lo hanno votato: Bersani, Epifani, Speranza che con un tweet entusiasta ringraziò tutti i deputati Pd per aver approvato celermente il provvedimento. Lo stesso Grasso era fino a poche settimane fa iscritto al Pd.

Solo Sinistra Italiana è sempre stata contraria alle tutele crescenti ma è in netta minoranza nella lista-Grasso. Sulle posizioni critiche di Sinistra Italiana è fermo anche Tomaso Montanari, che con Anna Falcone aveva avviato il Brancaccio, al quale avevano aderito Sinistra Italiana e Rifondazione. Lo storico dell’arte si augura che Grasso ci ripensi e abbandoni l’idea renziana delle tutele crescenti. Fedele alla proposta del Brancaccio è rimasta solo Rifondazione che dopo il fallimento del percorso ha risposto all’appello dell’Ex Opg-Je So Pazzo di Napoli aderendo con altre realtà sociali alla lista “Potere al Popolo!”, benedetta da Luigi De Magistris: “Quello che stanno facendo i ragazzi dell’Ex Opg, che anche se sono giovani sono molto maturi politicamente, va esattamente nella direzione di quel che faremo quando avrò terminato il mio mandato”, ha detto il sindaco di Napoli alla presentazione del libro “Demacrazia”, di Giacomo Russo Spena, e ha inviato un messaggio di auguri all’assemblea nazionale). La lista, che ha scelto come simbolico capo politico una donna, la ricercatrice precaria Viola Carofalo, è l’unica che propone tutele piene da subito e non dopo tre anni  per tutti i lavoratori.

Anche il Movimento 5 Stelle dichiara di voler cancellare il Jobs Act ma, nel pur articolato programma lavoro, non c’è alcuna proposta sui contratti. Di Maio ha chiarito che la posizione sull’articolo 18 è quella di ripristinarlo ma solo per le imprese con più di 15 dipendenti. Nella formulazione pre o post Fornero? Tutele piene – anche se solo per due terzi dei lavoratori dipendenti – o dimezzate? E dopo quanti anni? È grave che il programma non ne parli perché il mancato riconoscimento delle tutele può rendere controproducente per i lavoratori l’applicazione di altri punti programmatici interessanti come la riduzione dell’orario di lavoro, fortemente voluta anche da “Potere al Popolo!” (e da Sinistra Italiana, ma anche questa posizione del partito di Nicola Fratoianni è purtroppo scomparsa nelle linee programmatiche di Liberi e Uguali). I 5 Stelle puntano a ottenere la riduzione dell’orario – una tendenza già in atto, e che va indirizzata a vantaggio dei lavoratori – attraverso gli incentivi al  contratto part time. Il problema è che in Italia – a differenza dei paesi europei – il part time quasi sempre involontario: viene cioè imposto dall’azienda al lavoratore, obbligato a turni che rendono difficile la conciliazione della vita lavorativa con quella familiare.

I lavoratori costretti al part-time sono 2 milioni e 622 mila: la maggioranza del totale di 4,3 milioni e il doppio rispetto agli anni pre-crisi. È una delle ragioni per cui è cresciuta l’occupazione ma sono diminuiti gli stipendi più che in tutti gli altri paesi europei. Incentivare le imprese ad assumere part time lavoratori non tutelati e dunque ricattabili significa fare l’ennesimo favore alle grandi imprese e l’ennesimo torto ai lavoratori, i quali possono avanzare rivendicazioni sull’orario, il salario, l’organizzazione del lavoro, la tutela della loro sicurezza solo se non temono di essere licenziati. Questo era, in fondo, lo scopo di Confindustria, che ha ispirato il Jobs Act e la riforma Fornero: indebolire le tutele dei lavoratori per renderli più docili e remissivi, ottenere l’agio di poter liquidare con un indennizzo economico quelli che ancora insistevano a far valere i propri diritti.

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