Il sito di giornalismo investigativo 'The Intercept' riporta la testimonianza del cronista, che racconta le intimidazioni arrivate anche dai presidenti Usa. Vietato, ad esempio, parlare delle prigioni segrete della Cia e dubitare delle armi di distruzione di massa in Iraq
Manca una postilla al motto del New York Times, che è All the news that’s fit to print, tutte le notizie che vale la pena pubblicare, ed è “se il governo non ha obiezioni”. Secondo il due volte premio Pulitzer James Risen, 62 anni, ex giornalista del NYT, il quotidiano ha censurato alcune delle sue inchieste più scottanti, sulla politica estera americana e la sicurezza interna. A fare pressione sul giornale perché non pubblicasse le notizie, per motivi di sicurezza nazionale o per non imbarazzare qualcuno, sarebbero stati la Casa Bianca e i servizi segreti, nello specifico Cia e National Security Agency. “Hai l’obbligo di dimenticarti la storia e distruggere i tuoi appunti” gli disse, fissandolo negli occhi, Condoleeza Rice, consigliera per la sicurezza nazionale, in un incontro alla Casa Bianca nel maggio 2003. Altre intimidazioni sono giunte da George W. Bush in persona. Durante i suoi mandati, la “compravendita di segreti a Washington”, così l’ha definita Risen, è stata sistematica. E con Obama la stretta sarebbe pure peggiorata.
La confessione fiume di Risen: “Tutti commerciavano informazioni” – “Funzionari della Casa Bianca e altri burocrati, del momento o del passato, appaltatori, membri del Congresso, del loro staff e giornalisti, tutti commerciavano informazioni” confessa il reporter in una testimonianza fiume – 36 pagine dense di nomi, rivelazioni shock, trascrizioni di email confidenziali – affidata al sito di giornalismo investigativo The Intercept. Non è la prima volta che Risen, sposato e con tre figli, parla delle censure subite al New York Times. Tutti sanno, perché l’ha raccontato lo stesso quotidiano nel settembre del 2006, delle pressioni di George W. Bush sul direttore del New York Times Bill Keller affinché non pubblicasse l’inchiesta di Risen sulla sorveglianza di massa. Il NYT la pubblicò, ma solo dopo averla tenuta nel cassetto per un anno e solo dopo che comunque Risen l’aveva già messa in un suo libro. Quando l’articolo uscì, Risen si aggiudicò un Pulitzer. Ma fu una vittoria amara: il suo giornale, quello celebre per pubblicare tutte le notizie, gli aveva tappato la bocca troppe volte. E oggi lui racconta nel dettaglio come.
Vietato parlare delle prigioni segrete della Cia – La prima volta che Risen subì la censura, fu alla fine del 2002. “Dopo gli attacchi dell’11 settembre, l’amministrazione Bush iniziò a chiedere alla stampa di insabbiare le storie più spesso. Lo facevano così spesso che mi convinsi che l’amministrazione invocava la sicurezza nazionale per reprimere storie che erano semplicemente imbarazzanti politicamente”. Risen voleva denunciare che la Cia teneva i prigionieri di Al Qaeda in un carcere segreto in Thailandia. “Alcuni funzionari dell’amministrazione Bush chiamarono il Times e ottennero dal giornale il silenzio sulla storia. Io non ero d’accordo”.
Vietato dubitare delle armi di distruzione di massa in Iraq – Ma la censura peggiorò quando, nello stesso anno, gli Stati Uniti erano in cerca della prova che l’Iraq di Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa. “Iniziai anche a scontrarmi con i redattori. (…) I miei articoli che sollevavano domande sull’intelligence, in particolare sulle dichiarazioni del governo sul legame tra Iraq e Al Qaeda, venivano tagliati, insabbiati o ignorati”. Anche alcuni analisti dell’intelligence erano molto scettici nei confronti di Bush. Risen li intervistò. “Il pezzo è rimasto nel sistema del Times per giorni, poi settimane, ignorato dai redattori. Ho chiesto a tantissimi di loro a che punto fosse l’articolo, ma nessuno lo sapeva. Alla fine uscì, ma era stato tagliato brutalmente e nascosto in fondo al giornale. Ne scrissi un altro e successe la stessa cosa. Provai a scriverne ancora, ma iniziai a recepire il messaggio. Mi sembrò che il Times non le volesse queste storie”.
Le pressioni di Condoleeza Rice alla Casa Bianca – Altra notizia, stessa censura. Nella primavera del 2003 Risen aveva per le mani una storia di goffissime operazioni di spionaggio della Cia in Iran, fallite per incompetenza degli 007. Una storia “scervellata”, la definisce Risen, che avrebbe messo in ridicolo l’intelligence americana. Risen telefonò all’ufficio stampa della Cia per un commento. Risultato? Il giorno dopo, il giornalista e il suo capo erano seduti di fronte a Condoleeza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale, e a George Tenet, direttore della Cia, in una stanza della Casa Bianca. “Rice mi guardò dritto negli occhi. Avevo ricevuto informazioni così sensibili che avevo l’obbligo di dimenticarmi dell’articolo, distruggere i miei appunti e non fare mai una telefonata per parlarne con chicchessia, disse lei. Disse ad Abramson (caposervizio a Washington, ndr) e a me che il New York Times non avrebbe mai dovuto pubblicare la storia”. Detto, fatto: il Times non la pubblicò mai. Il giornalista iniziò a sentirsi isolato. “Ero depresso”.
Lo scoop che valse il Pulitzer era stato censurato per un anno dal New York Times – Nella primavera del 2004 lo scoop di una vita bussò alla porta di Risen. Una fonte, dopo parecchie titubanze, gli rivelò che i cittadini americani era intercettati. Email, telefonate, tutto veniva ascoltato dagli agenti della National Security Agency, con l’approvazione del presidente Bush. L’operazione “Vento stellare” era segretissima e “probabilmente illegale e incostituzionale”. Risen, in squadra con il collega Eric Lichtblau, trovò conferme da altre fonti. Quando l’inchiesta era pronta per finire in prima pagina e sconvolgere il Paese, iniziò “un anno di negoziazioni tra il Times e l’amministrazione Bush, mentre i funzionari cercavano continuamente di uccidere la storia”.
Risen ormai era stanco. “Ero furioso che il Times avesse stroncato tutte e due le storie sull’Iran e sulla NSA, e arrabbiato che la Casa Bianca riuscisse a nascondere la verità. Dissi a me stesso che se avessi continuato ad accettare le scelte di tagliare o direttamente uccidere così tante storie, come avevo fatto negli ultimissimi anni, non sarei più stato capace di rispettare me stesso”. Quelle inchieste per Risen sarebbero dovute uscire in un modo o nell’altro. La soluzione? Farne un libro. “Ero quasi sicuro che avrebbe significato essere licenziato dal Times. Era snervante, ma mia moglie, Penny, era fermamente convinta. ‘Non ti rispetterò se non lo fai’ mi disse. Questo determinò la mia decisione”.
Quando in redazione seppero cosa stava per fare, Risen fu accusato dai colleghi di “insubordinazione” e “ribellione”. Il suo capo tentò di convincerlo a censurare il libro e ci fu pure un incontro tra George W. Bush, l’editore del New York Times e due capiservizio per ritardare l’inevitabile uscita dell’articolo sul giornale, che sarebbe seguita alla pubblicazione del libro. Fu un periodo difficilissimo per il giornalista. “Non riuscivo a dormire e iniziai a soffrire di pressione alta”. Alla fine il libro uscì nel 2006 con il titolo State of War, così come il pezzo, per il quale Risen e Lichtblau vinsero il Pulitzer lo stesso anno. Per Risen era il secondo Pulitzer. In redazione gli chiesero di fare un discorso, come da tradizione quando si vince il premio più prestigioso per un giornalista. “Non sapevo cosa dire. Per mesi avevo segretamente vissuto con la paura di essere licenziato per insubordinazione; adesso venivo onorato per la stessa cosa, dalle stesse persone”.
George W. Bush, nemico dei reporter. “Obama? Peggio” – Ma non era finita qui. L’amministrazione Bush prima e quella di Obama poi, pretesero di sapere quali fossero le fonti di alcuni capitoli del suo libro, chiamandolo a testimoniare in un processo a carico di un ex agente della Cia. Risen si è sempre rifiutato di rivelarle, rischiando il carcere, ma, nel 2015, dopo una battaglia legale durata 7 anni, la Corte Suprema ha deciso di ritirare il mandato di comparizione nei suoi confronti, rispettando così la libertà dei giornalisti a tenere segrete le fonti.
Ma perché in tribunale era stato portato per il libro e non per l’articolo, vincitore del Pulitzer, che diceva le stesse cose? Risen una risposta se l’è data: è stata una “decisione strategica” della Casa Bianca, per non andare allo scontro diretto con il New York Times. Risen è rimasto deluso dal presidente Barack Obama. “Il giro di vite sui giornalisti e gli informatori è iniziato durante la presidenza di George W. Bush e proseguito in modo molto più aggressivo sotto l’amministrazione Obama, che ha perseguito più fughe di notizie di tutte le precedenti amministrazioni messe insieme”. Oggi Risen non scrive più per il New York Times.