di Walter Paternesi Meloni
Ha fatto notizia in tempi recenti la modesta ripresa del Pil italiano, che nel 2017 dovrebbe attestarsi al +1,5% su base annua e per il quale si prevede una crescita dell’1,8% nel 2018 (dati Istat). Non ha fatto altrettanto notizia a seguito della crisi del 2007/08 – se non per alcuni attenti osservatori tra cui Montella e Mostacci (2015) su Economia e Politica – l’introduzione da parte delle autorità europee di un meccanismo automatico di sorveglianza, lo scoreboard per le procedure di squilibro macroeconomico. Si tratta di uno strumento attraverso il quale la Commissione Europea, che definisce uno squilibrio come ogni tendenza foriera di effetti negativi sul corretto funzionamento dell’economia di uno Stato membro, controlla una serie di indicatori macroeconomici al fine di attivare la procedura di infrazione nel caso in cui non vengano rispettate delle soglie prestabilite (European Commission, 2012).
È curioso notare come ben 4 dei 14 principali indicatori riguardino la competitività esterna, monitorata attraverso il saldo delle partite correnti, le quote di mercato, il costo del lavoro per unità di prodotto ed il tasso di cambio effettivo reale. Inoltre, a questo dispositivo di vigilanza si sono affiancati rapporti e raccomandazioni dei policy maker europei in cui si fa apertamente riferimento ad un problema di bassa competitività dei Paesi della periferia europea rispetto all’area continentale (European Commission 2009; 2010), la cui massima espressione di efficienza e produttività risiederebbe nel modello di crescita tedesco.
Fatta questa premessa, lo scopo di questa breve nota è di far emergere delle considerazioni che collegano il tema della crescita economica a quello della competitività intesa come saldo delle partite correnti. In particolare, si intende sostenere che nell’attuale assetto istituzionale dell’Uem, un aumento del reddito nazionale a cui si associa una fisiologico slancio delle importazioni indurrebbe le autorità di governance, in assenza di politiche di sviluppo industriale volte a stimolare l’export, ad adottare misure di contenimento della domanda (ovvero, politiche fiscali restrittive) al fine di salvaguardare l’equilibrio esterno del Paese in deficit, essendo quest’ultimo non ristabilibile nel contesto dell’Eurozona attraverso la flessibilità del cambio nominale.
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*Università Roma Tre