Benché tutti sappiano (non solo i politici, ma anche il popolo, su cui gravano sempre tutte le inefficienze dei politici) che il problema del XXI secolo è la scarsità dei posti di lavoro, loro, i politici tutti (salvo forse i pochi rimasti di autentica fede comunista) continuano ad occuparsi d’altro, e quando sono costretti a parlare del lavoro ti sciorinano il solito “mantra”: è solo l’iniziativa privata a creare il lavoro, quindi bisogna liberalizzare sempre più e consentire alla inventiva dei privati e alla competizione, affinata dagli interessi capitalistici, di creare le condizioni favorevoli alla nascita di nuovi business che creano lavoro.

Questa, alla prova dei fatti, è però una gran balla!

E’ vero che sono (numericamente) sempre gli imprenditori privati a creare i nuovi business (e quindi a creare poca o tanta occupazione in relazione), ma è anche vero che questo può avvenire (salvo casi isolati) solo se la condizione generale del paese è favorevole, ovvero se l’economia “tira”. Quando invece l’economia del paese è soffocata da una crisi anche l’iniziativa dei privati ne soffre. Fino al punto da trasformare quella che potrebbe essere una semplice recessione in una lunga e deprimente stagnazione.

E’ avvenuto negli Usa negli anni Trenta, poi in Giappone negli anni Novanta ed ora in Europa nel secondo decennio di questo millennio.

Siccome questi fenomeni gli economisti li conoscono bene fin dai tempi di Keynes, quelli che ci raccontano la favola del “Jobs act” che per uscire dalle crisi bisogna ridurre i debiti e liberalizzare tutto, contano balle.

Ovviamente (ma lo diceva anche Keynes) quando i debiti sono alti bisogna ridurli, ma quando si è già in crisi è molto meglio aspettare. Infatti l’America, durante la recente “Grande Recessione”, ha inventato il Quantitative Easing (poi adottato anche dall’Europa e da tutte le altre grandi economie del mondo), non l’austerity, che aveva già adottato negli anni Trenta finendo dritta dritta in piena stagnazione, poi risolta grazie agli enormi investimenti per la Seconda guerra mondiale.

E’ vero perciò che è solo con i grandi investimenti pubblici che l’economia cresce e crea le opportunità anche agli investitori privati. Questo meccanismo, che ha trovato nel capitalismo il propellente perfetto, si è però notevolmente complicato con l’avvento della globalizzazione.

Mentre nel secolo scorso l’industrializzazione privata (accanto a quella pubblica) creava milioni di posti di lavoro all’interno dello stesso sistema paese, dando alle esportazioni il vantaggio di aumentare la produzione e i guadagni interni. Oggi la globalizzazione crea ricchezza solo altrove. Crescono in questo periodo solo i paesi poveri ma poco liberali (o dittatoriali).

E’ molto meglio non illudersi dalla cosiddetta “ripresina”, continuamente sbandierata ad uso degli sprovveduti (che così sono di nuovo invogliati ad investire i propri risparmi nelle moderne trappole finanziarie), è solo una enorme bolla che presto scoppierà gettando di nuovo tutti in recessione e depressione. Per uscire davvero dalla stagnazione reale, che non risparmia nemmeno gli Usa già in pieno boom economico (la contraddizione si spiega con l’enorme squilibrio nella redistribuzione della ricchezza prodotta), c’è solo la strada della piena occupazione e ad una crescita delle classi medie della società con un ritorno organizzato del lavoro nel territorio nazionale (questo è l’unico punto su cui ha ragione Trump).

L’Italia può (anzi deve) anticipare tutti avviando, per prima al mondo (grazie anche alla nostra Costituzione), un ciclo virtuoso di occupazione garantita per tutti. Inizialmente ci sarebbe un altissimo tasso di lavori pressoché inutili, ma è inevitabile (per esempio si potrebbero riattivare quei lavori in parte già rubati dalla robotizzazione, come i lavori dei cassieri dei supermercati, ecc. O altri come i controllori dei biglietti, le portinerie, i giardini pubblici, ecc. ecc.).

Chi paga? Lo Stato, ovviamente, in tutto o in parte. E non aumenta il debito, perché essendo un esborso che viene subito rimesso in circolazione da chi lo riceve (perché era povero e disoccupato), cambia di mano rapidamente ritornando però subito, sotto forma di tasse, all’emittente. Eventualmente si potrebbe creare a questo scopo una moneta dedicata, sul tipo dei buoni pasto.

Se tutti questi lavoratori “semi-inutili” spendono e pagano le tasse, in qualche modo si crea ricchezza, risparmio che viene investito, ecc. ecc.

Nel frattempo lo Stato, attraverso il sistema educativo e, dove possibile, con incentivi, crea le condizioni per creare lavoro “vero” (cioè richiesto dal mercato), rivolto soprattutto ai giovani, e non solo nelle aziende pubbliche ma ora anche in quelle private che, grazie alla florida condizione generale creatasi, ritroverebbero le condizioni per crescere con continuità, aumentando gli investimenti, le esportazioni e il Pil, e consentendo in definitiva anche la riduzione del debito pubblico.

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