Il colloquio con Claudio Martelli e quello con Paolo Borsellino. La successione di Vincenzo Scotti e le telefonate con Loris D’Ambrosio. Continua nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo la requisitoria del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Alla sbarra ci sono nove imputati (erano dieci prima della morte di Totò Riina): i boss Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, il pentito Giovanni Brusca, i carabineri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il testimone Massimo Ciancimino. E poi Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. Sono tutti accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato. Tranne Mancino, che invece è accusato di falsa testimonianza.
Da Mancino “omertà istituzionale” – Ed è proprio la posizione dell’ex ministro della Democrazia cristiana quella analizzata nell’ultima udienza dalla pubblica accusa. Per il pubblico ministrero Antonino Di Matteo quella di Mancino è “omertà istituzionale“. Davanti ai giudici che celebravano il processo per favoreggiamento a Cosa nostra in cui era all’epoca imputato Mori, Mancino ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Contatti che, secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa trattativa. Martelli, che dei rapporti tra i militari dell’Arma e Ciancimino aveva saputo dal suo direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, ha raccontato di aver parlato, già il 4 luglio del 1992, a Mancino della vicenda. Irritato e preoccupato per quanto saputo dalla Ferraro, avrebbe avvertito il collega, all’epoca titolare degli Interni. Conversazione che Mancino nega sia avvenuta, secondo l’accusa, per tutelare Mori e i suoi.
“Era ossessionato da Martelli” – Nella prospettazione della Procura l’ex ministro dell’Interno, scelto al posto del suo predecessore Enzo Scotti perché favorevole a una linea di dialogo con la mafia, avrebbe dunque negato il dialogo con Martelli proprio per “proteggere” il Ros che aveva avviato un contatto con Ciancimino. “Martelli non ha pregiudizi accusatori verso collega di governo, anzi pare preoccupato delle conseguenze delle sue dichiarazioni per Mancino. Martelli non nutriva sospetti su Mancino allora, né sull’esistenza di trattative in corso”, spiega Di Matteo “difendendo” la genuinità delle parole dell’ex numero due del Partito socialista italiano. “Mancino invece – ha continuato il magistrato – era ossessionato dalla possibilità di essere messo a confronto in aula con Martelli e perciò esercitò un pressing costante e ostinato verso il Quirinale per sollecitare un intervento che gli consentisse di evitarlo. C’è il tentativo del privato cittadino Nicola Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria degli uffici del pm e addirittura le scelte di un collegio di giudici, ebbene quel tentativo invece di essere doverosamente stoppato in partenza, venne assecondato e alimentato dal Quirinale e per quello che l’allora consigliere giuridico Loris d’Amborsio riferisce a Mancino, dallo stesso presidente Napolitano in persona”.
Il romanzo Quirinale – Il riferimento del magistrato è alle intercettazioni delle telefonate – lette in aula dal pm – tra Mancino e l’ex consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio dalle quali, secondo la procura, si evincerebbero i tentativi del politico di sollecitare un intervento del Colle per scongiurare il confronto con Martelli. “Temeva che da quel confronto – ha spiegato Di Matteo – si evidenziasse la sua reticenza e ha sfruttato il suo peso di uomo di potere per ostacolare le indagini. Il tentativo di scongiurare il confronto venne assecondato dal Quirinale e dall’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, almeno secondo quanto emerge dalle parole intercettate di D’Ambrosio”. In quelle telefonate con l’allora consigliere giuridico del Colle, l’ex presidente del Senato lamentava inoltre un contrasto tra l’azione delle tre procure (Firenze, Palermo e Caltanissetta) che si occupavano della trattativa Stato-mafia, evidenziando che Palermo seguiva una linea tutta sua. Al contrario degli altri due, infatti, l’ufficio inquirente del capoluogo aveva messo sotto processo i politici.
“Grasso si rifiutò di avocare” – “Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva D’Ambrosio nelle intercettazioni. Poi aggiungeva: ”Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. E ancora: “Posso parlare col presidente (Napolitano, ndr) che ha preso a cuore la questione. Ma mi pare difficile che possa fare qualcosa. L’unico che può dire qualcosa è Messineo (ex procuratore capo di Palermo ndr). L’altro è Grasso. Ma il pm Nino Di Matteo in udienza è autonomo. Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata”. Il riferimento a Grasso era motivato dal fatto che in caso di contrasto tra le procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta, l’unico chiamato ad intervenire sarebbe stato l’allora capo della Dna. Il futuro presidente del Senato venne effettivamente investito della questione ma si rifiutò di avocare le indagini: sostenne invece che nessun contrasto c’era stato tra i magistrati e che non poteva prospettarsi alcuna “scippo” dell’inchiesta dei pm di Palermo.
L’incontro con Borsellino – Ma non solo. Perché Di Matteo ha ricordato in aula anche un altro passaggio della versione di Mancino: quello legato al primo luglio del 1992. Quando il giudice Paolo Borsellino andò a trovare l’allora neo ministro dell’Interno al Viminale. “Le affermazioni di Mancino sull’incontro con il giudice Borsellino al Viminale nel giorno dell’insediamento di Mancino da ministro dell’Interno sono state oscillanti e contraddittorie. Fino al 2010 Mancino non aveva nessun ricordo di quell’incontro”. Poi cosa succede? “Poi cambia versione anche su altri fronti dichiarando di essere stato costantemente aggiornato su tutte le vicende che, in modo mendaceo, in precedenza aveva detto di non ricordare. Il problema è che Mancino va a dire il falso davanti ai giudici, sapendo l’importanza e la rilevanza della dichiarazione di Claudio Martelli nei confronti di Mori e di altri protagonisti della trattativa”. Nel febbraio del 2017, infatti, Nicola Mancino aveva reso dichiarazioni spontanee in aula, al processo trattativa, in cui, parlando dell’incontro con Borsellino al Viminale disse: “Sull’incontro con il giudice Borsellino, che non conoscevo fisicamente, ma che in tante mie dichiarazioni non ho mai escluso di avergli potuto stringere la mano, come avevo fatto e stavo facendo nel pomeriggio del primo luglio 1992 con tante personalità convenute a Viminale per gli auguri di rito, si sono dette, diffuse e scritte maliziose e subdole insinuazioni”.
“Da Mario Mori omissioni e inerzie” – Alla fine dell’udienza, quindi, la parola è passata nuovamente al pm Roberto Tartaglia che ha riavvolto indietro il nastro della storia per delineare il profilo di un altro imputato: quello di Mario Mori. “Il generale Mario Mori, durante la sua attività ai Servizi segreti prima e al Ros dopo, ha agito con la doppia logica, da qui si capiscono le omissioni, le inerzie e tutte le cose che non quadrano”. Il rappresentante della pubblica accusa, ha descritto Mori come “un ufficiale che quando era ai servizi segreti ha fatto attività parallela” e ha “perseverato con il suo agire sciolto e libero da ogni regola. Lo ha fatto da subito, al Sid negli anni 70 e lo ha fatto anche a Mezzojuso e a Terme Vigliatore, con la doppia logica”. “Noi riteniamo che alla luce di tutto questo – ha concluso dunque Tartaglia – lo ha fatto perché questa è la struttura della sua modalità di azione”.