Prima le provocazioni contro la religione islamica. Poi le botte. A subirle in carcere, nel 2010, un italo-brasiliano, all’epoca 25enne, convertito all’Islam e detenuto nel penitenziario di Asti. Per questi fatti la Corte di Cassazione ha condannato a un anno di reclusione per lesioni aggravate un agente della polizia penitenziaria ora in pensione. La condanna nei confronti di un suo collega coinvolto nei fatti era invece già definitiva nel 2016 perché quest’ultimo non ha fatto ricorso dopo la sentenza della Corte d’appello di Torino. Ne dà notizia l’Associazione Antigone per la tutela dei diritti dei detenuti, che adesso denuncia un altro aspetto: la vittima – tornata in cella – non può ottenere il trasferimento nel carcere più vicino alla sua famiglia, quello di Alessandria, perché il secondo poliziotto lavora lì. “È molto importante ora che il ministero della Giustizia assicuri protezione al detenuto e che sempre più nei programmi di formazione dello staff si parli anche di libertà religiosa”, commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
L’episodio è avvenuto nel carcere di Asti dove, intorno al 2004, secondo gli atti dell’inchiesta, una squadra di agenti seminava il terrore. L’unico processo nei confronti di alcuni di loro per le violenze ai danni di due detenuti era finito nel nulla e soltanto a ottobre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire le vittime di quelle violenze qualificate come torture. Il fatto denunciato adesso da Antigone, invece, è avvenuto il 27 maggio 2010: il giovane detenuto con problemi di droga, diventato musulmano poco prima di finire in cella nel 2008, doveva essere accompagnato in infermeria dal “secondino”, che nel percorso inizia a rivolgergli domande provocatorie sulla sua barba e sulla sua religione. “Allora il brigadiere tormentatore di musulmani mi fa: ‘Il vostro Profeta puzzava e ci puzzava anche quella cazzo di barba’ – scriveva il detenuto al suo avvocato Guido Cardello in una lettera inviata sotto falso nome per evitare le censure – A quel punto io ho tirato un calcio alla scrivania perché qualunque musulmano non sarebbe stato zitto e fermo”.
L’agente gli intima di rimettere a posto il tavolo, il 25enne si rifiuta, il poliziotto gli dà un pugno e, mentre chiede all’altro agente di prendere le forbici per tagliargli la barba, lo trattiene per il collo: “Guarda, hai pure il trattamento dei tuoi fratellini di Abu Graib”, è la frase pronunciata dal primo poliziotto e citata nella lettera in cui il detenuto ricorda l’affronto subito e i calci al collo. Nella lettera, però, non segnala l’ulteriore maltrattamento subìto a cui i giudici non hanno creduto perché raccontato troppo tardi. I due agenti denunciati e altri due non identificati lo avrebbero imbavagliato e, dopo aver alzato il volume della radio per non fare sentire i rumori, gli avrebbero tolto i vestiti e coperto la testa con un sacchetto. Dopo avrebbero legato caviglie e polsi alle sbarre della finestra dell’infermeria e lo avrebbero fatto salire su un letto per poi togliergli l’appoggio e farlo penzolare in aria.
Il 5 dicembre 2014 il gup Giulio Corato ha condannato due agenti a 2 anni e 8 mesi il primo e due anni e due mesi il secondo per lesioni aggravate, violenza privata, ingiuria e vilipendio alla religione, dando credito soltanto al primo episodio. In secondo grado la Corte d’appello di Torino ha ridotto le pene a un anno di reclusione perché, nel frattempo, il reato di ingiuria era stato abrogato e l’accusa di violenza privata era stata ritenuta insussistente. Soltanto un agente ha fatto ricorso in Cassazione, che però ha respinto, mentre il collega non ha impugnato la sentenza della Corte d’appello, che è diventata definitiva. I due hanno risarcito la loro vittima con cinquemila euro. La vicenda potrebbe ritenersi chiusa, ma a luglio l’italo-brasiliano è tornato in cella e, non potendo essere rinchiuso ad Asti (riservato a chi ha condanne definitive), né ad Alessandria, dove lavora il secondo agente, è stato mandato a Cuneo. “Il mio cliente ha scritto al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria chiedendo un trasferimento – spiega l’avvocato Cardello – Potrebbe andare nel carcere di Vercelli, più vicino alla famiglia, ma non gli è stato concesso”.