Mauro Villone e Lidia Urani vivono a Vila Canoas a Rio de Janeiro, dove gestiscono la ong creata dal padre di lei, che si occupa del doposcuola per 40 bimbi. "Siamo gli unici italiani della comunità ma non siamo mai stati così felici. A Torino troviamo scetticismo e malumore"
Fermata della metropolitana: São Conrado. Scesi dal treno, però, non prendete l’uscita verso uno dei quartieri più ricchi di Rio de Janeiro, proprio São Conrado, con i suoi edifici sofisticati, ma dirigetevi verso Vila Canoas, una costellazione di vicoli che si sviluppano in verticale facendo ombra ai campi da golf. “A Rio ci sono più di mille favelas. Oggi, voi siete capitati a Vila Canoas”. Non sarete voi a trovare Mauro Villone e Lidia Urani, ma saranno loro ad individuare degli europei aggirarsi all’ingresso della piccola favela brasiliana. Mauro e Lidia vivono qui, tra le mani la gestione di Para Ti, il progetto che il padre di Lidia ha consegnato nelle mani di sua figlia e del suo compagno. “Mio padre è stato presidente Fiat in Brasile e Sudamerica, responsabile dal 1971 al 1975 per le iniziative industriali del Minas Gerais”, racconta Lidia, ripercorrendo gli anni in cui la sua famiglia è arrivata in Brasile, nel 1964. San Paolo, prima, poi Rio de Janeiro e l’incontro con le favelas.
Nel 1979, infatti, una piccola comunità di persone ha occupato i terreni privati e pubblici a lato della loro casa. “Quando ci siamo trasferiti accanto nei dintorni di Rio la favela di Vila Canoas non esisteva ancora – continua Lidia – Io avevo 15 anni, e l’ho vista crescere da poche baracche alle 3mila persone che la abitano oggi”. Un agglomerato di case talmente contorto e aggrovigliato che, qualche anno fa, “abbiamo ospitato uno studente di ingegneria del Politecnico di Torino che ha fatto una tesi su come riescono a stare in piedi le case di una favelas”, racconta la coppia.
Erano gli anni Ottanta, e Lidia non può dimenticare la notte in cui la sua famiglia non riusciva a dormire per le grida che venivano dalla baraccopoli. “C’era stato un fortissimo temporale, poi verso le due di notte uno schianto: trenta baracchette erano crollate una sull’altra perché le fondamenta non avevano tenuto. Da quel momento in poi, mio padre non è più riuscito a stare con le mani in mano”. E fu così che, l’ex manager ha fatto diventare famosa Vila Canoas come la prima favela brasiliana dotata di fognatura. Ma non solo: rifiutando un successivo trasferimento che lo avrebbe portato lontano da Rio e accantonando a 50 anni la carriera, Franco Urani ha speso gli ultimi anni della sua vita nella favelas, ristrutturando 400 abitazioni, spendendo un milione delle vecchie lire per creare una chiesetta e costruendo un asilo che ospita 180 bambini dai sei mesi ai quattro anni. Il tutto realizzato grazie a un finanziamento di Unione europea, municipio di Rio e Daniele Agostino Foundation (USA).
Sua figlia Lidia è sempre cresciuta in mezzo a quei progetti mentre la sua stanza si affaccia su una favela che per lei è “casa”. “Non potrei vivere in un altro posto al mondo”, racconta la 55enne cresciuta in Brasile. Infatti, nonostante Franco Urani sia morto nel 2011, Lidia e il suo compagno Mauro Villone hanno scelto di restare a Rio per portare avanti Para Ti, ong che si prende cura del doposcuola di circa 40 bambini dai 5 ai 12 anni, dando lavoro a una maestra, un’educatrice e una cozinheira locale. “Vogliamo dare ai bambini un’alternativa alla strada”, racconta Mauro, descrivendo i laboratori di teatro, meditazione e arte terapia. “Una volta la settimana faccio con loro la pizza e mangiamo tutti insieme”.
Anche Mauro Villone, come Lidia, è di origini torinesi. Alle spalle un passato da fotografo e pubblicitario. Oggi Mauro ha 59 anni e da 12 vive insieme a Lidia affittando le stanze dell’ostello della loro associazione, portando avanti il progetto di doposcuola dell’organizzazione e promuovendo la cultura indios dal punto di vista religioso e cerimoniale. “Da diversi anni sosteniamo la cultura indigena con il nostro lavoro fotografico e di comunicazione”, racconta. Inoltre, tutti gli anni la coppia ospita rappresentanti della cultura indigena gratuitamente per diversi mesi mentre lavorano a Rio per vendere il loro artigianato. “Siamo gli unici italiani della comunità ma non sono mai stato così felice – continua Mauro – Non esiste paragone dal punto di vista umano: il brasiliano è umano, ti abbraccia, spontaneo, ha fede. Quando torno a Torino, un paio di volte l’anno, non sopporto lo scetticismo e il malumore degli italiani”.
Seguirli per le strade della baraccopoli significa districarsi tra i fumi di locande costrette in locali troppo stretti e bancarelle che riversano i loro prodotti sulla strada. Per la strada, un vecchio autobus di linea a cui sono stati tolti i sedili per trasformarli in un negozio ambulante di frutta e verdura. A pochi metri dalla via principale di Vila Canoas, una scritta riempie un grosso muro dipinto di azzurro scuro. “Ogni persona è un universo”. La calligrafia è quella di Mauro. Accanto, deve essere stato un abitante della favelas ad aggiungere: “Un universo pieno di stelle”.