Bevevamo whisky e coca, sorseggiavamo vino al bar del centro sociale, guardando le ragazze in camicia di flanella e anfibi che ballavano Zombie. Nelle discoteche rock dei primi anni Novanta i giovani grunge scrollavano i capelli nel bagliore delle luci strobo, spargendo nell’aria nuvole di sudore, si scatenavano nella furia del pogo.

In your head
in your head
Zombie
Zombie
Zombie-ie-ie

Quella canzone era ovunque, nelle radio, su Mtv,  usciva furente dalle casse durante le serate al Black Out di via Saturnia, al vecchio Circolo degli Artisti, al Palladium alla Garbatella, al Villaggio Globale di Testaccio. Erano gli anni dei ritornelli violenti, Zombie si contendeva lo scettro di canzone-manifesto di una generazione con Smells Like Teen Spirit dei Nirvana.

With the lights out
it’s less dangerous
Here we are now
Entertain us…

La voce di Dolores O’Riordan, con i suoi esplosivi salti di ottave, e quella feroce e disgraziata di Kurt Cobain, due estremi che raccontavano la disperazione, il riscatto, la sommossa, la renitenza, la dolcezza e l’amarezza di una gioventù che aveva da poco riscoperto gli acidi, complice la ricorrenza del cinquantennale del primo “viaggio” di Albert Hofmann, colui che nel 1943 aveva sintetizzato la dietilamide dell’acido lisergico, più noto come Lsd.

Zombie fu pubblicata nel 1994, fu il primo singolo estratto dal secondo album in studio dei The Cranberries, No Need to Argue. La canzone fa riferimento al conflitto nord-irlandese, fu scritta un anno prima in memoria di due ragazzi vittime di un attentato dell’Irish republican army (Ira). Ma quel ritornello si prestava alla perfezione a rappresentare altro, in special modo la furia e il dolore che aleggiavano nei pensieri dei ventenni della prima metà degli anni Novanta:

Nella tua testa
Nella tua testa
Zombie
Zombie

Già, perché quella è stata l’ultima lost generation, quella che trovò nel grunge una sintesi, la cui ribellione non aveva la pretesa di cambiare il mondo, ma mirava a seppellirlo, una generazione che non vedeva luce oltre l’alba della domenica, che si accaniva contro se stessa negando ogni possibilità di riscossa, che – per la prima e unica volta nella lunga storia della musica popolare – trovava in un disturbo psichico – la depressione – un approdo sicuro e un senso (non era la malinconia del blues, non era l’energia dell’hard rock, non era l’insurrezione del punk, non era il crepuscolo del dark).

Gli eroi musicali degli anni Novanta camminavano al passo con la morte, scherzavano con essa, la sfidavano (pensate ai salti folli di Eddie Vedder dalle torri dei palchi). Non esistono altre epoche della storia del rock che siano state falcidiate dalle morti tanto come i Nineties, morti per suicidio o per forme subliminali di suicidio: Kurt Cobain dei Nirvana, Chris Cornell dei Soundgarden, Andrew Wood dei Mother Love Bone, Layne Staley degli Alice in Chains, Scott Weiland degli Stone Temple Pilots. Il che è un po’ come immaginare che Ian Gillan, Robert Plant, Carlos Santana, David Gilmour, Ozzy Osbourne, ossia i supereroi musicali degli anni Settanta, non fossero mai arrivati vivi alla fine del decennio successivo. Ho 44 anni, e se mi fermo a pensare alla musica che ascoltavo a vent’anni mi rendo conto che di quelle voci, appena due decenni dopo, non c’è rimasto quasi più nessuno. Non credo ci sia un precedente simile nella storia della musica, neppure per quanto riguarda le generazioni che hanno attraversato le guerre mondiali. È un dato ragguardevole sul quale non riesco a smettere di riflettere.

Il 24 giugno dello scorso anno The Cranberries avrebbero dovuto suonare al Firenze Rocks. Avevo il biglietto, mentre ero già sotto il palco ho saputo che la loro partecipazione era stata annullata. Si sarebbero dovuti esibire prima di Eddie Vedder. “Siamo estremamente dispiaciuti nel comunicare che The Cranberries hanno deciso di cancellare l’intero tour europeo”, si leggeva nel comunicato stampa. Secondo le indiscrezioni a Dolores O’Riordan i dottori avevano consigliato di sospendere il tour per problemi alla schiena. Mi godetti comunque la performance di un Eddie Vedder in stato di grazia, e fu una serata prodigiosa, ammaliante, struggente, che scosse nel profondo me e i cinquantamila presenti nell’Ippodromo del Visarno.

Ieri sera, appena ho appreso la notizia, ho imbracciato la chitarra e ho intonato Zombie, l’ho suonata piano, pizzicando appena le corde, senza spingere sul ritornello, per non cadere nella trappola della nostalgia, nel gorgo del tempo, nel buio di quelle sale, nell’odore dolciastro sparato dalle macchine del fumo, nella visione dei ragazzi che si muovevano a scatti, nell’ottuso cannoneggiamento dei bassi, nelle espressioni stampate sulle facce intorpidite dei miei amici di allora.

Dolores O’Riordan non c’è più. E neanche il resto.

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