“L’uomo non è cattivo.
Ha solo paura di essere buono”
Eduardo De Filippo
Ci eravamo lasciati parlando di odio online e di buoni propositi. Avevamo visto come la gente sui social perda le inibizioni e il buon senso e vi riversi, consapevolmente o meno, la bassezza interiore, in una sorta di “esibizionismo del risentimento”. Complice il clima di fanatismo che serpeggia nel nostro paese, e non solo, “la gente” ha preso il sopravvento sulle “persone” nel campo dei social. “La gente”, quella massa informe che si coalizza ed esiste solo davanti ad un nemico che può cambiare di volta in volta: i politici, i gay, gli immigrati, i poteri forti, i rom e chi più ne ha più ne metta.
Davanti a tanto rancore la reazione delle persone è spesso lo sgomento, l’impotenza, il silenzio. E all’interno di questo campo digitale in continuo stato tumultuoso, non si lascia spazio alla speranza, alla bellezza, alle storie toccanti che ci arricchiscono l’anima e che alimentano il senso di comunità.
Eppure i social network si prestano in modo entusiasmante all’esaltazione della comunità.
Una comunità che deve trovare la forza di crescere e riprendersi quello spazio digitale occupato prepotentemente dagli spacciatori della paura. Gli esempi di questa potenzialità straordinaria sono quotidiani e molteplici. Qui mi limiterò a raccontarvi una mia esperienza personale che dimostra in modo inequivocabile la forza positiva dei social network.
Era il 2013, la Regione Lazio di Renata Polverini aveva aumentato il costo dell’affitto alla casa di accoglienza Peter Pan, una struttura destinata ad ospitare gratuitamente i familiari di bambini malati di cancro. Un aumento talmente insostenibile che, di fatto, ne decretava la chiusura. Una vera e propria ingiustizia ai danni di bambini e famiglie già pesantemente colpiti dalla sorte. Sentita la notizia, mi chiesi cosa potevo fare per scongiurare una simile mostruosità. Allora mi rivolsi alla Rete e, utilizzando il mio profilo Twitter, provai a creare, dal basso, un movimento di opposizione a questa scellerata decisione, creando e utilizzando l’hashtag #peterpandevevolare. Molti aderirono a questa mia iniziativa e, nel giro di poche ore, l’hashtag divenne virale, scalando le tendenze in Italia. Giornalisti, comici, comunicatori, influencer, politici, persone comuni, praticamente chiunque incrociasse quell’hashtag sostenne la causa con un pensiero, un’opinione, un appello. Appello raccolto dall’allora sfidante alla guida della Regione Nicola Zingaretti che promise che, se fosse stato eletto, avrebbe concesso in uso gratuito la struttura. E così fu. Dopo poco tempo, la Regione cedette i locali, evitando lo sfratto ai bambini, ai familiari ed ai volontari che animano la struttura. Giustizia era fatta. Peter Pan ha continuato a volare.
Dunque sul web è possibile creare comunità ed esaltarla nella sua bellezza e semplicità. Cercare di essere virtuosi in rete opponendosi con decisione alla deriva disfattista non solo è possibile, ma oggi diviene doveroso. Specialmente per contrastare il racconto apocalittico che si consuma, ad esempio, sul tema fortemente divisivo dei migranti.
Avete mai notato che chi è contro l’immigrazione vede e parla dei migranti sempre come una collettività e mai come individui? Se andate sulla pagina Facebook di Matteo Salvini, ad esempio, vedrete una sequela impressionante di immigrati menzionati solo ed esclusivamente intenti a commettere reati. Un uso criminogeno dei social che, nelle menti più deboli, può sfociare in atti di violenza senza senso. La cronaca purtroppo ne è piena. Gli immigrati visti sempre come numeri, mai come persone. Reati, mai storie. Un martellamento e un lavaggio del cervello continuo, che sfocia in espressioni violente e tristemente razziste come quella del leghista Attilio Fontana “la razza bianca è a rischio, dobbiamo ribellarci”. L’invasione, la minaccia, la paura, l’odio.
Premesso che nessuno nega che anche un migrante possa delinquere, come qualunque essere umano, chi non accetta questa equazione fuorviante dovrebbe adoperarsi per ripristinare quantomeno la realtà. Dare voce a chi non ce l’ha, ai profughi in questo caso, raccontando le loro storie, i loro bisogni, le loro aspirazioni. Sostituire i numeri alle persone, in carne e ossa esattamente come noi. Ad esempio, mi ha colpito molto la storia di Khaled, un ragazzino di appena 12 anni ritratto in una fotografia, divenuta virale, mentre osserva alcuni ragazzi che si allenano in una palestra. Khaled è un profugo in Turchia scappato dalla guerra in Siria. Non delinque, non ruba e non spaccia. Non si lamenta e non chiede l’elemosina. Per vivere fa il lustrascarpe. Anche se più che vivere è sopravvivere. Eppure sogna guardando una vetrina. Come fanno i bambini di tutto il mondo. La normalità di un bambino che desidera qualcosa.
Khaled, profugo siriano di 12 anni guarda alcuni ragazzi che si allenano in palestra. Non ruba. Non spaccia. Non si lamenta. Non chiede nulla a nessuno.
Cerca di sopravvivere. Sogna.
Il proprietario della palestra gli ha regalato l’abbonamento a vita.
I sogni si avverano. ❤️ pic.twitter.com/f6qlfuRS2d— Daniele Cinà (@danielecina) 11 gennaio 2018
Ebbene: questa foto, in un fortunato passaparola digitale, ha raggiunto anche il proprietario della palestra, non solo agli occhi ma dritto al cuore. Quest’uomo ha subito rintracciato il bambino e ha deciso di regalargli il suo sogno: l’abbonamento a vita per la palestra. Una storia edificante, partita dalla triste realtà, esaltata dalla rete, e ritornata alla realtà, migliore di com’era prima: la meraviglia dei social network. Riportare la normalità in quello spazio virtuale carico di eccezioni scandalose che alterano la realtà è dunque il dovere del buon cittadino digitale. Cultura, educazione e rispetto rimangono i migliori antidoti contro chi semina odio, fuori e dentro i social. La lezione di Martin Luther King può venirci in aiuto: “L’oscurità non può scacciare l’oscurità; solo la luce può farlo”.
I social network sono dunque una grande occasione. A noi spetta coglierla. Che aspettiamo?